Rischia di morire sul campo: salvato dall'allenatore avversario

Notizie fonte : iltirreno.gelocal.it
Rischia di morire sul campo: salvato dall'allenatore avversario

«Non smetterò mai di ringraziarti». Qual è la paura più terribile per una madre? Sicuramente quella di perdere un figlio. E così, quando ti si presenta davanti chi ha salvato tuo figlio, non può finire che con lacrime, abbracci e ringraziamenti. Perché i genitori di Filippo Bellacci, capitano del San Pierino-Botteghe, sabato se la sono vista veramente brutta, quasi quanto il loro figlio maggiore. E – se non fosse stato per il pronto intervento del mister avversario – le conseguenze sarebbero potute essere ben peggiori.

Ma cosa è accaduto? Bellacci sta concludendo il riscaldamento, a pochi minuti dalla partita coi Giovani Fucecchio 2000, di terza categoria al campo di San Pierino: a un certo punto sente un prurito, che dal petto si irradia fino alla bocca. Inizia ad avere difficoltà a respirare, così chiede ai compagni di chiamare la madre, che fa l’infermiera. Sul petto appaiono i segni di un pinzo, di non si sa quale insetto (forse un tafano): Bellacci va nello spogliatoio, mette la testa sotto l’acqua e quando si rialza praticamente non respira più. Si toglie la maglia, esce fuori e chiede aiuto: è lì che arriva David Tamburini, il quale lo sorregge e gli tiene ferma la lingua; nel frattempo vengono reperite alcune pasticche di cortisone, che vengono somministrate al 26enne, su indicazione del 118, che guida Tamburini nei movimenti.

Bellacci sente la bocca e la gola gonfie. Respira ancora peggio di prima e inizia a tremare. Compagni e avversari iniziano ad aver paura. Tamburini, però, non demorde: continua a tenere la lingua del giovane e nel frattempo gli mette un po’ di ghiaccio dietro la testa. L’ambulanza arriva prontamente e il medico scende già con la siringa in mano, per limitare i sintomi dello choc anafilattico. Tra adrenalina e flebo al cortisone Bellacci inizia a star meglio e sale in ambulanza. Quando scende, infatti, chiede addirittura alla madre il risultato della partita. Poi i sintomi si ripresentano e il capitano entra in pronto soccorso, per poi essere ricoverato in osservazione.

Occhi rossi di quattro persone, unite da un incubo a “lieto fine”. «Mi ero impaurito – continua Bellacci – così come i miei compagni. Mio fratello Tommaso, che gioca con me, piangeva. Cosa dire? Non è stato facile nemmeno tornare qua al campo, se ci penso mi prende male. L’arbitro chiamava il mister ma lui è rimasto con me, anche a costo di essere espulso. Non ci sarà mai un modo per poterlo ringraziare, perché in quei 15 minuti mi è passata la vita davanti. Non respiravo, né riuscivo a parlare, ero tutto gonfio: non sapevo più cosa fare. Lo posso solo ringraziare e magari – sorride – gli pagherò una cena».

Lì accanto c’è Tamburini, che lo abbraccia: «Ne ho viste tante nella vita e ho sempre l’avuto l’istinto di fermarmi per dare una mano. Perché l’ho fatto? Ho solo fatto ciò che mi sentivo dentro. Ho cercato di non farlo soffocare, gli ho dato il cortisone, mentre parlavo col 118 che mi aiutava. Alla fine anche fare il primo soccorso ti può aiutare in situazioni come queste, serve un mix di freddezza e di fortuna». Questa è la storia di Bellacci e Tamburini: il destino li aveva voluti avversari, adesso sono diventati “fratelli sul campo” .

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