Dalla coreografia che il mondo incantò, allo striscione che sembra un autogol: il settore è lo stesso, ma evitiamo un pericoloso errore!

Editoriale  
Dalla coreografia che il mondo incantò, allo striscione che sembra un autogol: il settore è lo stesso, ma evitiamo un pericoloso errore!

«Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale e le mani avevano cicatrici profonde, che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti». 
Se riavvolgiamo le bobine della pellicola girata ieri nelle curve del San Paolo, la proiezione è simile alle parole di Ernest Hemingway in un passaggio del suo capolavoro 'Il vecchio e il mare'. Sui volti dei tifosi ci sono da sempre i segni di una lotta che si tramanda di generazione in generazione per affermare con orgoglio e dignità la propria idea mettendo spesso da parte l'ordinario in favore dei toni forti e provocatori. Il rischio, però, in certi casi, è quello di sortire l'effetto contrario. "Questione di linguaggio", come dice De Laurentiis, "che non tutti sono in grado di comprendere". Il nodo della faccenda, come una delle tante nocche di una rete triste di pescatori, umili ma onesti, è che l'opinione pubblica e la mentalità ultras difficilmente si ritroverrano in questa vita a braccetto a passeggiare sul lungomare.

La questione del razzismo negli stadi è vecchia come è vecchio Santiago, e la sensazione, prima di ieri, era che negli occhi dei tifosi, come in quelli dell'attempato fisherman protagonista del romanzo, ci fosse lo stesso azzurro dei riflessi del mare in moto perpetuo che nasconde sia l'età sia i pesci contro cui si combatte per una dignitosa sopravvivenza dei valori e delle viscere. La stranezza sta nella contraddizione tra 'Terra Mia', coreografia da brividi sfoderata lo scorso anno in Curva B al cospetto della Juventus, i cui supporters non perdono occasione per intonare cori pro-Vesuvio sperando in una distruzione collettiva, e gli striscioni dello stesso settore che ieri hanno lasciato di stucco tutti con un "Napoli colera" di difficile interpretazione per l'opinione pubblica. "E adesso chiudeteci la Curva". C'è modo e modo per esprimere il proprio punto di vista, ma per essere efficaci c'è bisogno di tempismo, lo stesso che serve all'attore comico per suscitare ilarità. Autodefinirsi 'colera', pur provocatoriamente, nel giorno dello striscione voluto dalla Ssc Napoli per sostenere la causa della 'Terra della fuochi' ha i contorni di un autogol pazzesco! Poi è evidente, nell'epoca del 'tutti possono fare e dire tutto', è 'solo' una questione di punti di vista. Un caos, insomma, per nulla 'generante' e/o creativo. Qualcuno ha ipotizzato una sorta di 'solidarietà' degli Ultras partenopei ai colleghi del Milan i quali hanno incassato (era ora!) la mannaia del Giudice Sportivo che ha chiuso il loro settore, udite udite, proprio per cori razzisti contro i napoletani. Ma come? Gli ispettori di gara prima e Tosel poi ascoltano la protesta di chi si sente discriminato, e i napoletani cosa fanno? Protestano con il Giudice per aver ascoltato la protesta? 

Santiago, seppur cadente nel fisico, era riuscito ad arpionare l'enorme marlin a lungo inseguito con l'esperienza sempreverde di chi non è mai stanco di sognare. Alcuni napoletani, invece, da pescatori di dignità hanno corso il rischio di trasformarsi in pescecani, quelli che sbranano la preda sulla strada del ritorno e saldamente nelle mani dell'eroe che vede, in fondo alla strada del ritorno, gettata al vento la sua commovente azione intrisa di rispetto per la preda stessa. Una verità, seppur minima, che la vita insegna, ci racconta che generalizzare è sempre una pratica scorretta:  in ogni gruppo, che in apparenza sembra compatto, ci può essere un sottogruppo che la pensa diversamente. Generalizzare è probabilmente un'altra sottile e pericolosa forma di razzismo che porta a ghettizzazioni scriteriate. Un po' come quando i napoletani sono respinti tout court ai colloqui di lavoro per il loro accento, o quando si è costretti a provar vergogna nel leggere titoli quali: "Napoletani devastano un pub a Londra". Gli autori di ''Napoli colera', che tra l'altro si sono firmati, non sono gli stessi di 'Terra mia' pur essendo collocati nello stesso settore. A differenza di Hemingway, non vinceranno il premio Pulitzer, ma la loro scelta di inscenare una provocazione va comunque rispettata. L'auspicio, però, è che non pretandano di essere capiti da tutti. E, soprattutto, che le nuove leve, come Manolin, giovane che non smette di ammirare Santiago nonostante venga considerato perdente dai suoi genitori, rappresentino ancora il coraggio, la fiducia e la speranza di afferrare nuove prede con fierezza e dignità senza cedere all'assuefazione (a volte truffaldina e per scopi egoistici) tipica di chi dice: "questa vergogna va avanti da anni, da sempre". Le vergogne non hanno tempo, c'è sempre tempo per combatterle.

luca cirillo
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