José Joao Altafini compie ottant’anni e Il Mattino ha intervistato l'ex calciatore del Napoli calcio e Juventus. «Tutti mi fanno gli auguri, me li fanno da un mese ormai: siccome li compio domani, speriamo di arrivarci. Ho vissuto sette anni a Napoli e so bene cosa è la scaramanzia: l’ho imparata lì».
Quando arrivò al Napoli, Fiore lo annunciò euforico: «Napoletani, il più grande centravanti al mondo fa parte della nostra famiglia».
«Straordinaria, ilmigliore di tutti. Competente e appassionato. Avrebbe fatto di tutto per poter regalare lo scudetto al Napoli. Fui travolto dalla sua euforia».
«Lui non voleva che giocassi a pallone, e quando ho iniziato con il Piracicaba voleva che continuassi a studiare. Ma io volevo solo andare dietro a un pallone. E poi sognavo l’Italia. Come tutti quelli della mia generazione».
«Sì dicevano che somigliavo a Valentino Mazzola, il papà di Sandro. Ma per me fu una rovina: arrivai da voi e tutti si ricordavano di come giocava lui e ci rimanevano male quando poimi vedevano giocare alla Altafini. Sarebbe stato meglio Zezo, comemi chiamava mia mamma».
«Colpa di Viani, al Milan mi ha rovinato la vita con quel nome. Appena non segnavo, ecco che a San Siro sentivo quel nomignolo. Io che in vita mia non ho mai giocato con i parastinchi. Entrava negli spogliatoi e mi additiva: “ecco, abbiamo perso per colpa di quello lì”».
«Il presidente Riva era sicuro che stavano per darmi alla Juve, ma Roberto Fiore fu astuto e abile a fargli cambiare idea. E così ho vissuto i sette anni più bella della mia vita».
«Era un Napoli stellare, avremmomeritato lo scudetto con il grande Pesaola in panchina e io, Sivori, Juliano a farci trascinare dagli ottantamila del San Paolo. Il petisso era straordinario: si entrava in campo ridendo e si usciva dallo stadio sempre con una risata. “Mi raccomando, mi diceva, stanotte non tornare a casa prima delle quattro”. Al Milan, invece, Rocco aveva il pugno duro: massimo alle 10 a letto.Ma che vita era?».
«Quello al Bologna, dopo meno di un minuto, scarto quattro difensori e sento il boato dei 10mila tifosi venuti fino a lì. Qualcuno dice: altro che coniglio, questo è un leone. E io dissi: calma, qui di leone c’è sempre e solo Vinicio».
«Mi ricordo tutto, mica sono rimbambito».
«Lo so, ma a 34 anni restai fermo. Il Napoli non voleva più saperne di me, mi voleva la Roma che aveva Herrera in panchina, ma anche la Sampdoria, la Fiorentina e il Milan di nuovo.Mi chiama Allodi e decido di andare alla Juventus. Una seconda giovinezza. Entro sempre e faccio gol. Lo feci anche al Napoli quel giorno di aprile. Non sonomai stato un traditore, perché se il Napoli voleva poteva tenermi. Non lo fece».
«Ricordano tutti me. E Zoff che fino a quel momento era stato il migliore in campo prendendo un tiro di Juliano che era diretto all’incrocio dei pali?».
«Gioie immense. Ogni volta che c’è la finale di Champions,mi chiamano per ricordare il gol al Benfica: il primo successo italiano in Coppa dei Campioni. Ma per me brasiliano la vittoria in Svezia resta una cosa straordinaria, perché davvero avevamo tutti dentro la ferita per la sconfitta del ‘50 con l’Uruguay. Per il mio Paese una tragedia unica».
«Odio quel film. Io sono esattamente il contrario: gioioso, spensierato, allegro. Mai stato arrogante con nessuno. Proprio come i napoletani. Invece mi hanno fatto apparire come una specie di nemico di Pelè: invece non è vero che ero ricco, che la sua mamma lavorava a casamia, che io avevo quegli atteggiamenti di superbia. Quanta rabbia nel vedermi raccontato così».
«La mia rovina. Perché poi non ho più giocato con nessuna nazionale. Ma che potevo fare? In Brasile c’era la regola stupida che chi giocava all’estero non poteva essere convocato. E allora accettai, perché a 24 anni volevo ancora giocare un Mondiale. Un disastro».
«Purtroppo ho sempre vissuto senza pensare ai soldi, quindi i soldi non li ho fatti. Ho sempre pensato solo a divertirmi e non ho mai pensato alla pensione da calciatore. Però non mi manca nulla: do unamano a un mio amico che ha una azienda di campi in erba sintetica. Mi do da fare, proprio come quando ero ragazzino».
«Ho giocato con i migliori al mondo, da Pelè a Sivori, da Garrincha a Zizinho. Però Liedholm non era solo forte, ma era anche un galantuomo. Una persona geniale e garbata». C’è un suo erede? «Lamia eredità l’ho lasciata alle mie gambe: 40 anni all’una e 40 anni all’altra».