'Bastardi imbroglioni, la Juventus è la fine di ogni bene e l'inizio di ogni male. Una squadra di simulatori e truffatori'. Brian Clough, un artista maledetto del pallone

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'Bastardi imbroglioni, la Juventus è la fine di ogni bene e l'inizio di ogni male. Una squadra di simulatori e truffatori'. Brian Clough, un artista maledetto del pallone

di Giovanni Ibello
Ogni mito è un modello di imperfezione assoluta. Se una storia merita di essere raccontata, deve celare specchi d’ombra che riflettono le sagome dei propri demoni ma anche il bagliore di un fascino avulso dalla scure del tempo.
Il profumo dell’erba si fonde con l’aroma agrodolce della gloria. Che sia il peso di un 10 sulle spalle, o l’ossessione di raggiungere, per poi superare i propri limiti. Svolta generazionale, eccolo, Brian Clough: il bisogno di essere il più grande che si scontra con la condizione di un uomo straordinariamente sensibile. L’incarnazione di un clichè, l’artista “maledetto”: “Bere per me era diventato più importante dell’angoscia che stavo creando nelle persone che amavo di più”, avrebbe confidato il ‘rock-manager’ del North Yorkshire.
È l’Inghilterra degli anni sessanta. C’è grande fermento per le vie di Londra. Jimi Hendrix suona la grande musica del secolo, e i Pink Floyd (ma non solo) gli fanno eco, e si danza con gli angeli fino alla fine del tempo, con l’acuto celestiale di Clare Torry in ‘The great gig in the sky’.  
Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, Clough – ex bomber di Middlesbrough e Sunderland – inizia la sua carriera di allenatore all’Haterpool Utd. Niente di speciale fino ad ora, un dignitoso ottavo posto nella quarta divisione.  Ma è proprio qui che  incrocia il suo destino con quello di Peter Taylor, l’assistant coach che si rivelerà negli anni a seguire uno dei principali artefici dei successi di Clough. Troppo importante Pete, sa gestire il gruppo, ma riesce anche a contenere le intemperanze del collega.
Dopo due anni è la svolta: viene ingaggiato dal Derby County, compagine delle Midlands orientali di cui Clough è notoriamente tifoso. Non si può dire che i Rams navighino in acque tranquille. La squadra ristagna nei quartieri poco nobili della seconda divisione, ma nel giro di un paio d’anni il Football genius riesce a conquistare la promozione in First division (non c’era ancora la Premier League). “Verremo a prendervi”, avrebbe urlato Clough in preda all’euforia e all’alcool che gorgogliava nelle vene come olio bollente. Le sue attenzioni sono rivolte “agli scorretti” del Leeds United di Don Ravie, suo eterno rivale, “reo” – tra le altre cose -  di non avergli stretto la mano prima di un match di FA Cup.  Clough, l’arrogante emergente e Revie, il superbo dinosauro del football d’oltremanica. È l’epoca d’oro del calcio inglese.
“Perché non esiste una squadra in tutto il paese, non esiste una squadra in Europa, che non voglia battere Don Revie e il Leeds United. Neanche una. È il sogno di tutti, giocare contro Don Revie e il Leeds United e battere Don Revie e il Leeds United. Io non sogno altro, giocare contro Don Revie e il Leeds United e battere Don Revie e il Leeds United”.
Clough non  le manda a dire, sono frequenti le accuse recapitate ai rivali del Leeds. “Sono macellai travestiti da calciatori”, tuona senza mezze parole. Non sopporta lo stile aggressivo ai limiti della slealtà che valgono ai Peacocks numerosi trofei.  Per lui battere il Leeds significa dunque sovvertire le gerarchie di un sistema obsoleto, gestito da ricconi dilettanti e ignoranti che non sanno cos’è davvero il pallone. Stendere il Leeds vuol dire scalare la vetta più cara agli dei del calcio, firmare il patto che lo rende immortale. E ovviamente, umiliare Don Revie, perché l’odio è un sentimento nobile.
E ci riesce. Con l’indispensabile appoggio del fedele Pete, Clough riesce a compiere il miracolo. Nella stagione 1971-1972, il Derby County, allestisce un team in grado di  vincere il campionato nazionale, a seguito di un emozionante “testa a testa”, proprio con il Leeds. Il Derby è campione e il fango appiccicaticcio del Baseball Ground diventa oro nero che cola sulle grezze casacche di flanella. Revie è messo all’angolo, Clough consuma la sua vendetta. Ora il Vecchio conosce il suo nome. E lo teme.
L’anno successivo, il Derby disputa la Coppa dei Campioni. Arriva fino alla semifinale, ma - a stroncare l’ascesa trionfale dei Rams - fu la Juventus, apostrofata da Clough come una “squadra di bastardi imbroglioni”.  Brian non manda giù l’eliminazione che presenta, a suo parere, più di un cono d’ombra. Pete Taylor gli  riferisce di aver visto i calciatori della Juventus entrare nello spogliatoio dell’arbitro e conversare con lui impunemente. Pare che Haller abbia discusso in tedesco con l’arbitro Schulenberg, suo connazionale. Cosa si saranno detti? L’andamento del match fuga ogni dubbio, per Clough la Juventus è “la fine di ogni bene, l’inizio di ogni male. Una squadra di simulatori e truffatori”. Si rifiuta di parlare con la stampa, e si fa beffe dei soldati italiani che hanno combattuto la seconda guerra mondiale. Per questo viene censurato dal “Times” e dal “Guardian”, “compromette la reputazione del calcio inglese”.  Da par suo, la stampa italiana ci descrive Clough come un buffone.  È “guerra” aperta, e  non mancano dissidi interni con la dirigenza del Derby che portano all’allontanamento del tecnico e del suo vice.
Clough e Taylor decidono così di ripartire da Brighton, terza divisione.  Ma prima di ratificare l’accordo, Brian rinnega la parola data ai dirigenti dei Seagulls, e si accasa proprio al Leeds, orfano di Don Revie, chiamato a guidare la nazionale inglese. Finisce l’idillio con Taylor, che preferisce rispettare gli accordi presi con il Brighton e continuare a respirare aria di mare. Saranno giorni difficili per Clough. Quarantaquattro giorni di tormenti e pene per l’uomo che accetta la sfida più dura: baciare la bocca del nemico, superare il limite della decenza, rinnegare le proprie idee, perché il calcio, forse la vita stessa, è una bugia che rotola più veloce del tempo di cui disponiamo. E non ci resta che ballare il tip tap su questa grande sfera rossa e gialla, in questo grande circo, con un sorriso vuoto stampato sulla faccia e la paura di cadere che incombe, come uno spettro dietro le spalle, un tocco sinistro che sfiora le giunture.
Quarantaquattro giorni per destituire il regno di Don Revie, la cui presenza però è troppo ingombrante per Clough che  per prima cosa, rinnega le vittorie di William Bremner e compagni: “Signori, tanto vale che ve lo dica subito. Voialtri potete anche aver vinto tutti i trofei nazionali e qualcuno di quelli europei, ma per quanto mi riguarda la prima cosa che potete fare per me è prendere tutte le vostre medaglie e tutte le vostre presenze in nazionale e tutte le vostre coppe e tutte le vostre targhe e buttarle nel più grosso fottuto cestino che riuscite a trovare, perché non ne avete vinta nemmeno una onestamente. Lo avete fatto sempre giocando sporco, cazzo.”

Perde il Charity Shied, ma anche in campionato è crollo verticale. Il Leeds staziona nei bassifondi della classifica, l’ambiente non regge. C’è un ammutinamento da parte dei senatori dello spogliatoio. Clough viene cacciato, il nemico lo ha accolto in seno, poi lo ha tradito. O forse si è tradito da solo, rinunciando al suo odio per quel “Maledetto United”, svendendo i suoi principi per l’umana gloria. E poi c’è Pete che lo aspetta, Pete Taylor umiliato, ma disposto a perdonare l’affronto. Conosceva le debolezze di Brian, era lui quello forte, l’assennato.
Clough sembra sul viale del tramonto, ma torna in corsa con un’altra provinciale: il Nottingham Forest che milita in seconda divisione. Si ricompone il duo vincente con Taylor e via ai successi. Promozione in massima serie, per poi vincere anche la First Division con ben quattro giornate di anticipo sul Liverpool, padrona indiscussa della scena europea. Ma non finisce qui. Il vero miracolo di Clough sta nelle due Coppe dei Campioni conquistate con il Forest per due anni di fila.  Successi, questi, che non saranno mai replicati, tanto più che la storia recente del Forest è avara di successi.
Ma i trionfi non sono frutto del caso, o semplicemente, del carattere risoluto dell’allenatore. Clough è un antesignano del calcio totale olandese. Rinnega lo stile classico del football d’oltremanica fatto perlopiù di contrasti ai limiti del regolamento e lanci lunghi a scavalcare la difesa volti a cercare la sponda del centravanti per la seconda punta o la mezzala. Clough vuole un gioco propositivo, tecnico, forse persino inadatto per i freddi e fatiscenti manti erbosi d’Inghilterra. “Se Dio avesse voluto che giocassimo sulle nuvole, avrebbe messo lì l’erba”, così dice ai suoi calciatori esigendo un gioco che lungi dal voler far viaggiare la palla per via aerea, aveva il dovere etico di divertire il pubblico.   

Ma ogni storia segnata dal genio non può avere un felice epilogo. Il sodalizio con Taylor si rompe nel 1980, e i due arriveranno a non parlarsi più, nemmeno quando il Forest di Clough incontra il Derby di Taylor. Non una parola, freddo secco. Poi la commozione del grande amico al funerale di Pete, morto senza che l’indifferenza potesse lasciar spazio all’affetto che ha segnato la gloria dei giorni migliori.  

Brian Clough muore nel 2004. L’abuso di alcool gli cagiona un cancro allo stomaco che fa calare il sipario, mentre Arsene Wenger, manager dell’Arsenal, batte il suo record di 43 partite di campionato senza sconfitte. Se ne va così Brian Clough, l’arrogante bambino dalla faccia pulita, che cede al tintinnio del bicchiere, perché nessuno si salva, nessuno si può salvare, nemmeno se resta bambino. E lui lo sapeva: “Tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho raggiunto, tutto ciò che secondo me ha diretto e influenzato la mia vita – a parte il bere – derivava dalla mia infanzia”.

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