C’è una promessa che Napoli ha fatto al cielo più di cent’anni fa. Non era scritta su carta, né sancita da firme solenni. Era una promessa d’amore, gridata con un pallone ai piedi e il mare negli occhi. Una promessa che si rinnova ogni volta che un bambino calcia un pallone in un vicolo, ogni volta che lo stadio vibra come un cuore innamorato. Il calcio, a Napoli, non è solo uno sport: è il respiro della città, la sua voce, la sua preghiera. Chi nasce qui eredita una fede, un’attesa, un sogno che attraversa le generazioni. È qualcosa che non si sceglie: si riceve. Come un nome.
Come un destino. Questa è la storia di quella promessa. La storia di un club nato tra le onde del Golfo e i sogni di uomini visionari. La storia del mio bisnonno, Luigi Salsi, che per primo credette che il calcio potesse essere un’arte e una rivoluzione. È la storia di un’emozione senza tempo, che costituisce una promessa lunga oltre centoventi anni, che mi accompagna, silenziosamente, come se fosse una sorta di carattere genetico.
È la storia di Napoli, e di come una squadra è diventata anima di un popolo. Per comprendere davvero il legame tra Napoli e il calcio, non basta guardare al campo: bisogna ascoltare il battito della città. Perché Napoli non ha solo una squadra. Ha un popolo intero che respira pallone come fosse ossigeno, che vive in simbiosi con ogni rimbalzo, ogni fischio, ogni gol. Qui, un calcio tirato in un vicolo è una preghiera. Un coro allo stadio è un salmo antico. A Napoli, il calcio non è uno sport, ma una lingua madre, un dialetto emotivo. Non si tifa: si ama. Non si segue: si soffre e si sogna.
Nelle case, nei bar, perfino nei confessionali, si parla del Napoli. E quando la squadra vince, è come se i vicoli si sollevassero da terra, e l’anima della città si librasse sopra il mare. Il calcio non nacque sui campi sportivi, ma tra le onde del Golfo e le chiacchiere eleganti dei circoli nautici. Era l’inverno a suggerirne il bisogno, quando il vento rendeva la vela impraticabile ed il canottaggio troppo arduo. Fu allora che i signori dell’aristocrazia e dell’alta borghesia iniziarono a scoprire il fascino di un gioco nuovo, semplice, venuto dall’Inghilterra, quasi rudimentale: il football.
All’inizio era uno svago per pochi, uno sport da dopolavoro, per chi aveva già tutto. Ma a Napoli, niente resta per pochi. Il calcio cominciò a scivolare fuori dai cancelli dei circoli, a rotolare per i vicoli, a farsi passione dei bambini scalzi, delle piazze, dei sogni. Non serviva molto: bastava un pallone, anche di stracci, e una scalinata come tribuna. Fu così che questo sport si trasformò: da passatempo per ricchi, a battito del cuore popolare. E poi vennero gli uomini con la visione. Nel 1904, in un tempo in cui non esistevano ancora campionati nazionali, quando il calcio era frammentato in tornei interregionali, ma solo quello del Nord veniva considerato "nazionale", nacque il Naples Football Club. Non nel 1926, come molti erroneamente credono.
L’anima di questa squadra affondava le radici più lontano, in una Napoli che guardava al mare e sognava l’Inghilterra. La prima maglia fu a bande verticali, che richiamavano l’azzurro del mare ed il celeste del cielo, quasi come se ci fosse un legame atavico con un Paese lontano, i cui colori si fonderanno con quelli napoletani, nel cuore dei tifosi, circa ottant’anni dopo. Fu fondata da un gruppo di pionieri appassionati: imprenditori, marinai, sportivi che vedevano nel pallone un legame col mondo. Tra questi, c’era Luigi Salsi, il mio bisnonno, un uomo che credeva che lo sport potesse unire le anime e accendere le città. A lui, fu intitolato il primo trofeo mai vinto dal club: la Coppa Salsi.
Era il 1908, e già allora il Napoli cominciava a far battere il cuore del calcio italiano. Un gruppo di uomini visionari, mossi dalla passione per il calcio e dall'amore per la loro città, fondò il Naples Foot-Ball Club. Insieme a Salsi, un manipolo di uomini audaci e visionari decise di intrecciare il destino della città con il gioco più nobile e antico: il calcio. Erano eroi senza elmo né spada, ma con un cuore ardente ed un sogno incancellabile. In quei giorni incantati, Delfino Giolino si ergeva come un capitano d’altri tempi, il condottiero di un’armata di giovani cuori impavidi, pronti a sfidare il mondo con un pallone tra i piedi.
La sua passione infiammava gli spiriti e, sotto il suo sguardo fiero, il Napoli conquistò la sua prima corona di Terza Categoria, un trionfo che sembrava scritto nelle stelle. Al suo fianco, la figura solenne di Guido Fiorentino, campione di canottaggio e spirito indomito, il primo presidente effettivo che, con mano sicura e cuore saldissimo, guidò il club nelle acque inesplorate di un calcio che era ancora un gioco di pionieri, di sogni e di fratellanza.
Nel silenzio dei vicoli e sotto il sole cocente, si muoveva il dottor Ernesto Bruschini, medico dal sorriso gentile e dal coraggio immortale, che aveva sfidato il colera e la morte per salvare la sua città. Uomo di scienza e di poesia, la sua passione per il calcio accese un fuoco nei cuori di molti, diventando faro e guida per generazioni di napoletani. Tra i sentieri delle montagne, il giovane e valoroso Arturo Kernot trovò un destino tragico, un epilogo doloroso che trasformò il Monte Sant’Angelo a tre Pizzi in un luogo sacro, custode del ricordo di chi amò il gioco con l’anima e con la vita.
Nel frattempo, l’ingegnere e compositore Emilio Anatra intrecciava note e strategie, diventando un pilastro del Naples, mentre il capitano britannico William Potts portava con sé la nobiltà del calcio inglese, incorniciando la squadra di vittorie leggendarie e coppe conquistate con il sangue e con il sudore. Il primo capitano, il guerriero dal cuore inglese Peter Jackson, la cui partenza fu come una ferita aperta nel cuore del club, e l’ingegnere geniale Hector Mario Bayon, che con la sua mente brillante ed il suo spirito poliedrico arricchì Napoli di passioni e imprese, dal calcio alla pallanuoto, dall’arbitraggio alla politica.
Nel fragore degli stadi improvvisati, brillavano gli occhi di Michele Conforti, portiere gentile e buffo, che trasformava ogni partita in un sorriso condiviso, e quelli di Michele Scarfoglio, figlio di penne e parole, che seppe trasformare il pallone in poesia, sacrificando la giovinezza per la patria e per l’amore verso quel simbolo che era il Naples. Tra i sogni che arrivavano da terre lontane, il talento del belga Leon Chaudoir e dello svizzero Emil Steinigger diedero al club un tocco di magia straniera, capaci di infiammare gli spalti con giocate memorabili e vittorie che ancora oggi riecheggiano nelle leggende partenopee.
Così nacque il Naples Foot-Ball Club, non solo una squadra, ma un poema epico di sudore, di amicizia, di speranze incatenate al destino di una città che amava il calcio come si ama la vita. Il Naples Foot-Ball Club non fu solo una squadra di calcio, ma un simbolo di speranza e di riscatto per una città che, pur nella sua povertà, sognava in grande. Ogni partita era un atto di coraggio, ogni vittoria un segno che anche chi parte svantaggiato può raggiungere le stelle. E così, tra sacrifici e passione, nacque una leggenda che ancora oggi vive nel cuore di ogni napoletano. Al Sud, il Naples dominava e raccoglieva successi.
Dopo la Coppa Salsi, fu il turno della Coppa Lipton, vinta a Palermo nel 1909 e 1911. Anche questo torneo fu istituito da un altro visionario, Sir Thomas Lipton, un inglese innamorato dell’Italia e della Sicilia. Il calcio, come l’arte, aveva bisogno di sognatori e mecenati. E Luigi Salsi fu entrambi: industriale intraprendente, sostenitore del teatro San Carlo e dei giovani pittori partenopei, aiutava economicamente i club sportivi e i circoli culturali. A lui si deve la creazione di uno dei primi centri polisportivi della città, che ospitava canottieri, schermidori, calciatori e pugili.
Nel 1922, dopo la guerra e le difficoltà economiche, il club si fuse con l’Internaples, ma il titolo sportivo restò quello originario, grazie alla maggiore anzianità del Naples. Nel 1926, sotto l’impulso del regime fascista che voleva un calcio nazionale forte e centralizzato, nacque l’Associazione Calcio Napoli. Il nome inglese non piaceva al Duce, e così il presidente Giorgio Ascarelli, altro uomo illuminato e di larghe vedute, fondò una nuova era. Gli anni dell’attesa (1930–1980) Nel cuore degli anni Trenta, cominciarono a farsi largo i primi idoli del San Paolo. Su tutti, Attila Sallustro, elegante e carismatico, segnava gol e faceva innamorare il pubblico. Si racconta che a ogni rete il suo nome rimbombasse per ore nei vicoli dei Quartieri Spagnoli.
Negli anni Cinquanta, fu il turno del primo grande straniero, Hasse Jeppson, detto "’o banco ’e Napule" per il costo record del suo cartellino. Poi venne Omar Sivori, il primo argentino che rubò il cuore dei napoletani con il suo talento irriverente, preludio a un amore eterno per i figli del Río de la Plata. E ancora: Bruno Pesaola, l’argentino che diventò napoletano, prima calciatore, poi allenatore, artefice della promozione in Serie A nel 1965 e mentore per generazioni. Era un calcio fatto di polvere e poesia, di sigarette in panchina e occhi lucidi sugli spalti.
Fu in quegli anni che Achille Lauro, imprenditore e politico, prese in mano il club, rendendolo un simbolo d’orgoglio per la città. Il Napoli, con lui, fu più che una squadra: fu una dichiarazione d’identità. Poi arrivò Corrado Ferlaino, che ebbe il coraggio – e la fortuna – di portare a Napoli un uomo destinato a cambiare tutto: Diego Armando Maradona. Il destino prese la forma di un uomo basso, fragile, con occhi pieni di malinconia e piedi capaci di scrivere musica. Diego Armando Maradona non veniva dal Nord, non veniva nemmeno da una capitale. Veniva da Villa Fiorito, un sobborgo polveroso di Buenos Aires. Era il Sud del Sud del mondo. E solo chi è nato tra la polvere e i sogni può capire cosa significhi essere del Sud. Napoli riconobbe subito in lui un figlio, un fratello, un dio caduto sulla terra. E Diego riconobbe in Napoli se stesso: una città d’arte e fatica, bellezza e disordine, rabbia e amore.
Il loro fu un amore totale, senza pudore, senza difese. Maradona non giocava per vincere: giocava per liberare. Ogni dribbling era un colpo alla storia. Ogni gol, una rivincita. Quando, nel 1987, il Napoli vinse il primo scudetto, fu come se tutto il Sud avesse alzato la testa. Come se milioni di persone, per un attimo, avessero smesso di sentirsi meno. Il 10 maggio 1987, Napoli esplose. Con Maradona, con Ottavio Bianchi in panchina, con gente come Bagni, Giordano, Careca, si vinse il primo scudetto. Ma più che una vittoria sportiva, fu un atto politico, sociale, esistenziale. Fu il Sud che alzava la testa e, almeno per una stagione, guardava il Nord dall’alto. Il secondo scudetto, nel 1990, con Albertino Bigon, chiuse il cerchio. Diego lasciò un vuoto, ma anche una promessa: che Napoli era grande. Diego, con il suo amore per il calcio e le sue magie sul campo, disse ai napoletani che anche il Sud può vincere.
Che il riscatto è possibile. Che la fede muove le montagne, anche quelle invisibili del pregiudizio. E Napoli lo amò come si ama un santo e un peccatore insieme. Con devozione e dolore. Il secondo scudetto, la Coppa UEFA, i cori, le lacrime, le notti infinite… e poi la caduta. Perché gli dei non possono restare troppo a lungo sulla terra. Ma bastò quel poco per lasciare l’eternità. Maradona non fu solo un calciatore. Fu il simbolo del Sud che non chiede il permesso. E ancora oggi, ogni bambino che calcia un pallone a Forcella, o a Scampia, o a Villa Fiorito, lo fa con la speranza che il mondo lo guardi come ha guardato lui.
Poi, vennero le lacrime… Nel 2004, il Napoli era morto. Non metaforicamente. Fallito. Cancellato. Le porte chiuse, i debiti ovunque, la maglia azzurra dispersa nel fango. Sembrava la fine. E invece fu solo l’inizio. Un nuovo inizio. Come cent’anni prima, Salsi, imprenditore, appassionato, visionario, mecenate nelle arti e nello sport, arrivò un altro uomo del destino. Un uomo di cinema, abituato a scrivere finali, Aurelio De Laurentiis, il quale decise che quella storia non poteva finire così. Figlio di un napoletano di Torre Annunziata, con la lava del Vesuvio nelle vene, produttore di successo, arrivò a Napoli non come imprenditore, ma come regista di una rinascita. Ricominciò da zero. Dal nome, dalla Serie C. Ma con un’idea chiara: il Napoli non doveva solo tornare — doveva tornare per restare. Fu una scalata lenta, faticosa, senza sconti. Tra i primi simboli, il Pampa Sosa, guerriero di polvere e sudore, autore di quel “chi ama non dimentica”, dedicato al D10S, che ancora infiamma i cuori dei tifosi napoletani. Poi il talento fresco del Pocho Lavezzi, che sembrava correre veloce come l’esplosione di un vulcano, la furia silenziosa di Cavani, la classe di Hamsik, l’irruenza di Koulibaly, l’eleganza di Insigne, la rabbia gentile di Mertens, l’orgoglio di Di Lorenzo.
Il Napoli tornò in Europa. Sfiorò lo scudetto con Sarri, costruì una filosofia di bellezza e lotta. Ma il destino non era ancora compiuto. Nel 2023, sotto la guida di Luciano Spalletti, l’uomo più normale e poetico del calcio italiano, arrivò il terzo scudetto. Fu una festa che sembrava impossibile da superare. Eppure, nel 2025, il Napoli ha fatto di più: ha vinto il quarto scudetto. Non è stato solo un trionfo. È stato il compimento di un progetto iniziato tra le macerie. È stato De Laurentiis che prendeva sulle spalle cento anni di storia e li portava al traguardo. È stato l’imprenditore che, come Luigi Salsi un secolo prima, credeva che lo sport potesse cambiare una città. Oggi, il Napoli è un club modello. Solido, rispettato, temuto. Ma soprattutto, amato.
E ogni vittoria ha dentro il volto di Diego, il nome di Luigi Salsi, il sangue dei Quartieri e la voce di chi non ha mai smesso di crederci. Oggi, lo Stadio di Napoli porta il nome del suo D10S. Non è mai stato solo uno stadio. È un santuario laico, dove i tifosi non si limitano a guardare: partecipano al miracolo. Ogni volta che il Napoli segna, migliaia di cuori accelerano all’unisono. È qui che si ascolta la voce collettiva di un popolo intero, una voce che ha conosciuto l’umiliazione, ma non ha mai rinunciato alla speranza. In quel rettangolo di prato, si sono celebrati battesimi, resurrezioni e addii. È lì che Napoli si ricorda di essere viva. De Laurentiis, Spalletti e il quarto sigillo Nel 2004, Aurelio De Laurentiis raccolse le macerie e fondò una rinascita. Il Napoli tornò in Serie A, in Europa, a sognare.
Poi venne Luciano Spalletti, con la sua dolce follia e la sua semplicità. Nel 2023, riportò lo scudetto a Napoli. Fu il terzo. Ma il tempo non si è fermato. Nel 2025, il Napoli ha vinto il quarto scudetto. Una cavalcata epica. Un gruppo di ragazzi nati tra mille culture. Un gioco corale, che sembrava una sinfonia. Un sogno diventato carne, come quelli che Luigi Salsi, più di un secolo fa, vedeva nascere nei suoi occhi quando guardava i ragazzini rincorrere un pallone nel sole del Lungomare. Epilogo Il Napoli non ha avuto un solo eroe. Ha avuto mille nomi, mille volti, mille santi e poeti del pallone. Ogni epoca ha lasciato un’eredità. E ogni eredità, a Napoli, è memoria viva. La memoria di chi ha sudato per l’azzurro, di chi ha pianto, di chi ha gridato forte, anche quando sembrava inutile. Il Napoli non è mai stato solo undici uomini in campo. È una proiezione collettiva dell’identità di un popolo.
Quando la squadra gioca, la città si riflette in lei: con le sue contraddizioni, la sua bellezza ferita, la sua capacità di sorprendere e risorgere. Come Napoli, anche il Napoli è spesso sottovalutato, deriso, accusato di disordine e passione eccessiva. Ma è proprio in quel disordine che si nasconde la verità più pura: quella di chi non ha mai avuto tutto, ma ha sempre saputo trasformare poco in infinito. E in tutto questo cammino, il nome di Luigi Salsi è più di una memoria: è l’origine, la scintilla che ha acceso la fiaccola.
Salsi è il Prometeo che ha accesso il fuoco della passione nel cuore dei Napoletani, quello che ha fatto conoscere loro la fede. Un uomo che non costruì solo imprese, ma fondò visioni, un mecenate del possibile, un imprenditore che non si accontentava dei bilanci, ma cercava bellezza e legami.
Come Diego, come De Laurentiis, Salsi comprese che il calcio non è soltanto gol e classifiche, ma è la forma moderna del mito. Il calcio a Napoli non è un passatempo. È un’eredità. È una lingua. È una poesia. Questo quarto. Se il D10S ha mostrato al popolo napoletano che anche il Sud può vincere, che non esistono confini invalicabili quando si ha il coraggio di sognare, allora Aurelio De Laurentiis ha fatto qualcosa di altrettanto sacro: ha preso quel sogno, lo ha raccolto dalle macerie e gli ha dato forma, voce, futuro.
Diego ha acceso il fuoco. De Laurentiis ha custodito quella fiamma nelle notti più fredde, l’ha protetta dal vento dell’indifferenza, l’ha nutrita con la fatica, la tenacia, la visione. E da quella brace è rinata una città intera. Perché Napoli non è solo calcio. È popolo, identità, passione, arte, orgoglio. Ed è grazie a uomini come Diego e come De Laurentiis che oggi, più che mai, il Sud sa di potercela fare. Che non servono elemosine o concessioni: basta la fede. Basta il cuore. Basta non smettere mai di crederci.
E così, tra le lacrime di chi c’era e i cori di chi verrà, Napoli ha mantenuto la sua eterna promessa d’amore. Una promessa fatta nel 1904, sussurrata tra le onde del Golfo, scritta sulle mura dei vicoli e gridata oggi, nel cielo del quarto scudetto.