Giovanni Malagò, Presidente del CONI, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport. Ecco quanto evidenziato da CN24.
C’è una relazione tra la crisi del calcio italiano il suo ritardo culturale?
«Sì, nel senso che il calcio è l’unico sport dove esistono ancora dinamiche padronali. Almeno in Italia. In Inghilterra il proprietario non ha mai una gestione diretta della società. Delega, conferma, ricambia. Da noi invece i presidenti se la cantano e se la suonano. Ricordo che, quando da commissario della Lega ho messo in moto la revisione dello statuto per avere un consiglio di amministrazione con presidente, amministratore delegato, consiglieri indipendenti, mi guardavano come uno che volesse violentarli. Eppure giocavo in casa, c’era confidenza e stima reciproca, è gente a cui voglio bene e con cui vado a cena. Ma per loro l’ideale era continuare a mantenere la gestione dell’assemblea partecipativa, in cui si comanda in venti per non far comandare nessuno. Lo stesso accade all’interno delle società. Chi vende i diritti tv non può essere la stessa persona che si occupa dell’erba del campo e del contratto dei calciatori. I bilanci parlano. E dicono che si è perduta la via maestra del risultato economico senza raggiungere traguardi sportivi. Perché Moratti, Berlusconi, e prima l’Avvocato hanno speso sì un sacco di soldi, ma almeno lo sfizio se lo sono tolto, alzando coppe da tutte le parti. Oggi abbiamo solo debiti e umiliazioni fuori dai confini. Guardi il livello, quantitativo e qualitativo, dei diritti tv. Pochi introiti e contenziosi à gogo. Ma dico io: gli americani, che del business sono maestri, sono stupidi a demandare tutto al commissioner»?
Gli americani fanno bene al calcio italiano? Anche quando le proprietà sono hedge fund come Elliott, che comprano e vendono solo per fare utili?
«Se non fossero arrivati loro, con finanza fresca, molti club sarebbero già saltati».
Le plusvalenze sono il buco nero del calcio. Il tribunale federale le ha salvate. Ma resta il problema di riannodare il valore finanziario a quello sportivo degli atleti. Come si fa?
«Equiparando costi industriali e stipendi ai volumi di fatturato. Guardando sempre agli americani, che, non a caso, praticano il salary cap. Non vuol dire disconoscere i meriti dei campioni. Ma coltivare il realismo e la saggezza del fare impresa. Una cosa mi colpisce. Il calcio è l’unica economia che ragiona al netto e non al lordo. Significa misurare la realtà sul desiderio e sul consumo, e non sull’investimento che c’è dietro per realizzarli».
La Superlega può essere una cura ai mali del calcio?
«Mi chiedo se la Champions non lo sia già, una Superlega. Avete visto il solco che si sta scavando, in termini di introiti, tra le squadre che vi accedono e quelle che restano fuori? Non mi sembrano maturi i tempi per creare un’ulteriore dinamica di upgrade. Non facciamo gli ipocriti, è normale che un azionista ci provi per dare una sistemata a bilanci disastrati. Ma non per questo la Superlega diventa sportivamente accettabile. La mia stella polare è il CIO. Se fai un campionato fai-da-te, alle Olimpiadi non ci vai».