Mazzola a CN24: "San Paolo, che rispetto: fischiavano tutti tranne me. Quel rifiuto ad Agnelli e la pastiglietta di Herrera, la confessione di Padre Pio mi cambiò la vita"

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Mazzola a CN24: San Paolo, che rispetto: fischiavano tutti tranne me. Quel rifiuto ad Agnelli e la <i>pastiglietta</i> di Herrera, la confessione di Padre Pio mi cambiò la vita

Una bandiera dell'Inter, Sandro Mazzola, che ha  dato tanto al calcio italiano. Tutt'oggi, ha tanto da raccontare tra episodi e aneddoti dei tempi che furono. Figlio del grande Valentino, scomparso nella tragedia di Superga, ha dovuto un po' 'arrangiarsi' per sopravvivere. In vista di Inter-Napoli, la nostra redazione l'ha contattato per scoprire qualche retroscena sul calcio del suo tempo. 

Perché il figlio di Valentino Mazzola non ha giocato nel Torino?

"Avevo una nonna e una zia che lavoravano e potevano darci una mano perché i soldi erano quelli che erano. Tornammo al paese da loro dopo la morte di papà. All'Inter Club del paese arrivò Benito Lorenzi, voleva conoscerci. Aveva un bel ricordo di mio padre, mi diceva che era lui che dall'alto ci faceva vincere i campionati. Io e mio fratello diventammo mascotte di quella Inter. Ci mettevamo sugli spalti a guardarla e poi al triplice fischio giù negli spogliatoi. E quello era il bello: quando l'Inter vinceva o pareggiava, il presidente ci dava 15'000 lire in caso di pareggio e 25'000 in caso di vittoria. Li portavo a casa, miamamma ne aveva bisogno. Lorenzi diventò un po' il mio padrino. Andavamo a Superga qualche giorno prima dell'anniversario. Una volta, ero un bambino, gli dissi: 'Tu ci porti qui perché così papà ti vede e ti fa vincere gli scudetti?'. Ero un tipo abbastanza sfacciato". 

Suo padre sarebbe fiero di lei? 

"Sì. Ho provato a crescere professionalmente come avrebbe voluto lui. La gente mi ha sempre raccontato che era uno molto corretto in campo, ed io sono stato così. In tutta la mia carriera ho preso soltanto una squalifica perché provai a difendere un mio compagno. Non ho mai detto una parolaccia in campo, mai". 

Come ha iniziato a giocare a calcio?

"Come tutti, per strada. Eravamo un gruppo di ragazzini abbastanza poveri. La palla costava 500 lire, non ce la potevamo permettere. Quando la compravamo, quelle poche volte, andavamo a giocare in piazza tra i negozi e spesso ce la bucavano".

Il rimprovero più duro che ha ricevuto durante la carriera?

"Giuseppe Meazza. Una persona eccezionale, ci insegnava tante cose. Sono cresciuto tardi, ero piccolo e magro: mi mettevono sull'esterno. Avevo la 7, odiavo quella maglia. Davo la palla al compagno grande e grosso, poi scattavo  e lui non me la restituiva. Mi infiurai. Gli dissi: "Che cacchio, perché non me la ripassi?". Allora, il signor Meazza sentì tutto e mi fece: "Ué tì, pastina! Ricordati, ho vinto due campionati del mondo e non ho mai detto così ad un miocompagno. Non ti permettere, altrimenti non giochi più'. Mi bloccai. Per tutta la partita non riuscii a giocare. Una lezione di vita, insomma". 

Herrera vi drogava... è vero?

"Certe cose, adesso, non sono più possibili. Ma prima se ne facevano tante. Non  ha portato danni alla salute, ma quella pastiglietta era robaccia. I miei compagni stranieri la chiamavano simpativa. Era una specie di simpamina, una cosa che veniva dalla Spagna".

Gli incontri con Padre Pio...

"Da piccolo, la nonna mi raccontava storie di Padre Pio per farmi addormentare. Per cui, ho sempre avuto questa curiosità di conoscerlo. Con l'Inter, andaiin ritiro a Pietrelcina. Volevo vedere Padre Pio, volevo conoscerlo. Avevo un problema: non mi davano l'assoluzione quando facevo la confessione perché chiedevo di diventare come mio padre anche se avessi dovuto morire a trent'anni come lui. I preti mi dicevano che era un sacrilegio e non mi davano l'assoluzione. Mi misi d'accordo con un prete del posto che era un mio grande tifoso e chiesi una confessione da Padre Pio. L'appuntamento era alle 6 di mattina e alle 14 avevamo la partita. Mi svegliai presto, mi andai a confessare. Padre Pio mi disse sorridendo: "Lascia stare, Dio non guarda queste cose". Mi tranquillizzai, quelle parole mi cambiarono la vita. Tornai in albergo a dormire perché avevamo la sveglia alle 10 e approfittai per dormire ancora un po'".

Se dico Juve, cosa le viene in mente?

"Niente. Non esiste (ride, ndr). Ricordo la prima partita, il mio esordio. L'Inter aveva ormai perso lo scudetto e decise di mandare in campo i ragazzini. Perdemmo per 9 a 1, una figuraccia. Il giorno dopo avevo un'interrogazione importante, mia madre non voleva lasciarmi andare a giocare. Fortuna che il mio professore capì e mi perdonò: niente interrogazione". 

Quella richiesta 'particolare' alla Polonia...

"Mandarono me negli spogliatoi degli avversari perché ero l'unico che parlava un po' d'inglese. Dissi al capitano che gli avremmo dato dei soldi. Avevamo un premio se avessimo passato il turno e gliel'avremmo dato. Prima mi dissero di sì, poi giocarono normalmente. Vennero meno ai patti". 

La Juventus la cercò... come accadde?

"Ci allenavamo ad Appiano Gentile, un posto tutto chiuso vicino Como. Non entravi se non avevi la tessera da giornalista oppure eri uno di noi. Esco dal campo d'allenamento, vado nel parcheggio e mi accorgo di una macchina targata Torino. Era un giocatore della Juve. Mi saluta: "Ué, vieni, entra in auto". Io gli chiesi: "Come hai fatto ad entrare qui?". E lui: "Noi della Juve possiamo tutto". Entrai in macchina e mi passò un telefonino, dall'altro lato c'era l'Avvocato Agnelli. Mi disse: "Ciao, ricordo tuo padre. Mi piaceva tanto. Non lo posso dire in pubblico, capisci, ma a te lo devo dire. Vieni su a Torino a far colazione qualche giorno, così parliamo un po'". Andai a Torino. Non riuscivo a parlare, non mangiavo. L'Avvocato Agnelli mi propose il doppio di quanto percepivo al momento, una concessionaria Fiat in pieno centro e una concessionaria della compagnia assicurativa SAI. Mi girò la testa. Tornai a casa e mia madre s'accorse subito che qualcosa non andava. Le confessai tutto, mi disse: "Se vai alla Juve tuo padre si rivolta nella tomba". Chiamai l'Avvocato il giorno dopo e gli spiegai tutto. Fu molto gentile, mi capì".

I cinesi segnano la fine del calcio romantico?

"No, anzi. Sono un popolo innamorato di questo sport. Fui il primo a portare i cinesi in Italia. Riuscii a raggiungere un accordo con una squadra di Hong Kong e la portai a Milano per un tour. Riempimmo il San Siro, la società fece un incasso record perché la gente era curiosa di veder giocare i cinesi. Poi, al ritorno, andammo ad Hong Kong. Di notte, i negozi erano tutti aperti. Non chiudevano mai. Uscii da solo perché volevo comprare delle macchine fotografiche che da quelle parti avevano prezzi stracciati. Non vedevo nessuno dei miei compagni in giro, allora chiamai il massaggiatore: "Ma perché non c'è nessuno in strada? Qui ci sono i negozi aperti e tanta roba da comprare". Mi rispose: "Non hai visto le foto delle donne dietro la porta della stanza? Accanto c'è il prezzo...". Erano tutti in buona compagnia, in camera. 

Quante volte ha giocato al San Paolo?

"Tante volte. Ed ogni volta un'emozione. Non si scherzava affatto a Napoli. I tifosi erano una cosa seria. Nel pre-partita scendevano in campo le squadre avversarie. I napoletani fischiavano tutti tranne me, perché avevano rispetto di mio padre". 

Un calciatore del Napoli che l'ha impressionata?

"Ai miei tempi il Napoli aveva un certo Vinicio. Per me era un Dio. Mi si avvicinò dicendo 'vai forte ragazzino, continua così'. Vi lascio immaginare l'emozione...".

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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