Raiola: "Vi spiego come mai non ho portato Haaland in Italia"

Rassegna Stampa  
Raiola: Vi spiego come mai non ho portato Haaland in Italia

Alle pareti dell’ufficio di Mino Raiola in Boulevard d’Italie ci sono le locandine dei film di 007 («Il mio mito») e le maglie dei giocatori della sua corte. «Ma quale corte: è la mia famiglia ». Raiola s’entusiasma a raccontare di quando, a vent’anni, esportava bulbi, studiava legge, faceva gavetta come ds all’Haarlem e lavorava nel ristorante di famiglia, «dove ho imparato a capire le persone». Trent’anni dopo è così ricco che nemmeno lui sa quanto, e spesso il pianeta calcio gli orbita attorno. Sulla maglia di Moise Kean c’è una dedica: “a Mino, che mi farà diventare una star”.

Raiola, non è che invece Ibrahimovic è una stella cadente?
«Zlatan è tornato per divertirsi e per far divertire il mondo. Non potevo permettere che il suo ultimo palcoscenico fosse Los Angeles. Questi sei mesi saranno come l’ultima tournée dei Queen, un lungo tributo: bisognava farlo a San Siro».

Chi ha convinto chi, stavolta?
«Abbiamo litigato a ogni trasferimento. Se fossi ignorante, penserei che sono sempre stato io a decidere le sue squadre, invece a 52 anni credo di aver capito che lui decide e poi mi fa credere che la decisione l’ho presa io».

La serie A sta diventando il cimitero degli elefanti?
«Il caso di Zlatan è diverso, lui viene solo per sei mesi, poi vediamo. Però vi ho portato De Ligt, che volevano tutti. Tutti. Ma lui vuole diventare il miglior difensore al mondo e allora mi fa: “Mino, io devo andare all’Harvard della difesa, al Mit dei difensori”.
Perciò abbiamo scelto la Juve: per prendere la laurea».

Non per la commissione che prende lei?
«La mia commissione dipende dallo stipendio del giocatore, e vale per tutti. Non punto la pistola alla tempia di nessuno».

Haaland non l’ha portato a studiare da noi.
«No, perché non è un difensore e perché non è De Ligt, che è capitano dell’Olanda da due anni.
Gli italiani non sanno valorizzare i propri talenti, figurati quelli degli  altri. A me capita di incontrare osservatori italiani che gridano al miracolo se vedono un 2001 forte.
Allora gli dico: “ma che ve ne fate, se poi non lo fate giocare”».

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