"Chi era Diego? Un generoso nato" Ferrara racconta Maradona: "Lo conosco come pochi e l'ho amato, straripante umanità. Era un dio, sarebbe il più grande anche nel calcio di oggi"

Maradona Day  
Chi era Diego? Un generoso nato Ferrara racconta Maradona: Lo conosco come pochi e l'ho amato, straripante umanità. Era un dio, sarebbe il più grande anche nel calcio di oggi

Maradona Day - C’era un rumore che saliva a volte dalle profondità di una bellissima casa sulla collina di Posillipo, al numero 3 di via Scipione Capece, dove Diego Maradona abitava sopra Ciro Ferrara. A volte anche un rumore racconta un uomo e la sua storia. Forse è giusto cominciare da qui.

Ciro Ferrara ha rilasciato un'intervista all'edizione odierna di Repubblica:

Ferrara, cos’era quel rumore?

«Un tapis roulant. Diego si era sistemato una specie di palestra in cantina, sapete, i nostri erano tempi artigianali. Ci correva sopra. E lo faceva anche quando non veniva ad allenarsi con noi, quando era rimasto a dormire un po’ troppo, quando tutti lo davano per perso: e invece Diego galoppava da solo, là sotto».

Immaginiamo il suo dolore, adesso. Prova a raccontarcelo?

«La parola giusta è amore. Ho cominciato ad amare Maradona quando avevo diciassette anni, giocavo nel Napoli e gli davo del lei. E ho continuato per trent’anni. Bellissimi. Perché non c’erano distanze, non c’erano oceani tra noi. L’ho stimato, l’ho conosciuto credo come pochi ma amato come tantissimi: era impossibile non farlo».

Perché, Ciro?

«Per la sua profonda, straripante umanità. Per la vicinanza con tutti. Era un dio, ma nessuno è stato più umano di lui. Mai una volta l’ho visto salire sul piedistallo, essere superbo. Quando doveva dirti che avevi sbagliato un pallone, un passaggio, una giocata, aspettava che lo spogliatoio si svuotasse, ti prendeva da parte e ti spiegava. Nella mia vita, Diego è stato una presenza immensa».

Più intensa la luce o più profonda l’ombra?

«Non si possono separare e non sarebbe giusto. Lui non si è fatto mancare niente, ha vissuto ogni cosa al massimo, smodatamente. A volte, la notte sentivo alzarsi dal garage il rombo della sua Ferrari. E così il giorno dopo, al campo d’allenamento, quando Diego tardava e i compagni mi guardavano interrogativi, “e allora, Ciro, lui che fa?”, io rispondevo “ragazzi, mi sa che oggi non viene”. Ma poi lo trovavo ad allenarsi da solo, come un forsennato».

Si è fatto mai bastare quel talento immenso?

«Mai. Ha lavorato sodo, è stato uno di noi, uno per tutti. Mi ha fatto vincere e mi ha fatto diventare un uomo».

Lei ha appena scritto un libro per raccontare la vostra amicizia: perché?

«Volevo aggiungere al coro un atto d’amore. Quando smisi di giocare, organizzai una partita d’addio: Diego prese l’aereo e tornò al San Paolo dove non metteva piede da quattordici anni. Lo fece per me».

È possibile immaginare Maradona nel calcio di oggi?

«Sarebbe sempre il più grande, senza confronti. Sarebbe ancora il Sole al centro dell’universo. Avrebbe per sé più scienza, forse più protezione ma alla fin fine sarebbe sempre il più forte calciatore di tutti i tempi».

Allora si vinceva la classifica dei cannonieri con 16 o 17 gol: come andrebbe a finire, adesso?

«Nelle difese schierate a zona, Diego farebbe una strage di gol. La sua tecnica non era di questo mondo. Lui amava il pallone come un bambino in strada: la palla di stracci di quand’era bambino, la palla degli scudetti e della Coppa del mondo. Perché non erano cambiati né la palla, né il bambino».

C’è una frase di Maradona che più di altre le è rimasta dentro?

«A lui piaceva tanto quella che dice: chi ama non dimentica, e il tempo non conta niente».

Ma alla fine, chi era Diego?

«Un generoso nato. Una persona che si dava senza risparmio, ogni giorno e a tutti. Se lo avessero circondato in duecento, e se avesse sentito in quel trambusto la mia voce, lui si sarebbe fatto largo per venirmi ad abbracciare. Ecco chi era. Tutta vita, e basta».

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