Il calcio non è solo Cristiano Ronaldo o Mertens, è tanto altro: provare a ripartire per non far affondare il resto

Editoriale  
Il calcio non è solo Cristiano Ronaldo o Mertens, è tanto altro: provare a ripartire per non far affondare il resto

In tempi di Coronavirus, la Serie A prova a ripartire: criminalizzare l'intenzione, volerne per forza la chiusura significherebbe mandare all'aria il resto

A voi piacerebbe un mondo senza calcio e di conseguenza senza lo sport? Domanda molto semplice e probabilmente anche banale, a cui rispondereste con il più classico dei ‘no’. Riformuliamola: a voi piacerebbe un mondo sportivo - in questo caso ci riferiamo al calcio - dalle prospettive totalmente capovolte e pesantemente ridimensionato? Altro coro di no, eppure le peggiori previsioni queste sono. In Italia e altrove.

L’emergenza legata al Coronavirus sta cambiando il mondo, sta cambiando il nostro modo di vivere, influirà pesantemente sul futuro di tutti e cambierà anche il calcio: così come il mondo dei lavoratori, di qualsiasi genere, cerca un modo per ripartire, ci prova anche la Serie A, sotterrata dalla retorica stucchevole sui calciatori pagati più del normale in relazione alla loro istruzione media (in un mondo in cui, però, girano più soldi del normale), che proviene dalle menti di chi, nella maggior parte, ha un proprio credo calcistico.

La Serie A non può non avere la possibilità di ripartire, ne va dell’esistenza di un mondo che va oltre il semplice calciatore: dietro ogni singolo club c’è un sottobosco relativo agli staff, ai collaboratori, a quelli che non guadagnano cifre a cinque-sei zeri. E poi l’indotto, tutti coloro che, grazie al calcio, riescono a far girare la loro economia. Anche le televisioni, i giornali sportivi nazionali, i media locali: tutte realtà, piccole o grandi che siano, che hanno nel calcio uno dei loro focus principali.

Nonostante le difficoltà che persistono, e che persisteranno per lungo tempo, non è un crimine voler spingere per la ripartenza, consci delle distanze da colmare per quanto riguarda il protocollo con il comitato tecnico-scientifico. Ci stanno pensando in Germania, in Spagna, in Inghilterra, in Portogallo, in Svizzera ed in altri paesi in cui persiste questa volontà di tornare ad una pseudo-normalità. In Francia è stato deciso diversamente, e rischiano di passare l’estate nei tribunali sotto una marea di ricorsi. Vorremo per caso emulare i transalpini? Certo che no, ed i primi a volerlo sarebbero quelli che adesso vorrebbero che si fermasse tutto. Sia chiaro, ci sono questioni più gravi, basta guardare ai numeri ogni giorno alle ore 18. Ma non è che mandando al macello un lato, l’altro automaticamente si salva. Una mano - teoricamente - aiuta l’altra in momenti di difficoltà. Ma certe volte sembra che si guardi sempre al proprio orticello, con quella logica ‘te lo metto in quel posto’ che rende palesemente ciechi davanti alla possibilità di ottenere di più e per tutti (cosa che il calcio italiano fa da decenni, ma è un altro discorso).

Le parti in causa non si sono piaciute, non si piaceranno in futuro e si sono mosse male nei primi passi a livello comunicativo, decisivi per incrinare il rapporto: dal ministro Spadafora, che avrebbe nella salvaguardia dello Sport la sua missione primaria, ad esempio prima arrivano parole che fanno pensare ad esiti negativi (lo sport non è solo il calcio? Certo, ma gli emolumenti che arrivano dal calcio allo Stato non sono quelli dei restanti sport che, poi, ne beneficiano), poi altre che vengono sbugiardate nel giro di un paio di giorni (Gran parte dei presidenti di A chiederebbe lo stop? La Lega - che altrettanto ha aiutato a creare un clima non del tutto quieto - all’unanimità vuole concludere il campionato. I soldi non fanno schifo a nessuno, soprattutto quelli di Sky, DAZN e IMG).

La questione sugli allenamenti individuali concessi solo agli atleti professionisti degli sport individuali, negati agli sport collettivi, fa ridere - per non piangere -: l’Emilia-Romagna per prima, e la Campania presto seconda, tramite ordinanze hanno sbloccato la possibilità di allenamenti a porte chiuse per i singoli calciatori. Con tanto di doppio tampone - in questo caso specifico del Napoli - per calclatori e staff garantito dalla società (tolgono i tamponi ai cittadini, altra levata di scudi: chi lo ha detto e scritto, ieri, poi indossa la sciarpa la domenica). È bastata un’ordinanza per far venir meno quella che, agli occhi dei più disinteressati, può sembrare una mera ripicca per biechi interessi politici. La politica ed il mondo del calcio hanno la possibilità di salvare la faccia mettendosi fianco a fianco, assumendosi le proprie responsabilità ed evitando che altri decidano al posto loro. C’è un protocollo da sistemare? Che lo si faccia, altrimenti sarebbero tutti colpevoli.

Mettere il calcio da parte a prescindere, non dandogli nemmeno la possibilità di provare a ripartire, significherebbe mandare in mezzo alla strada un buon numero di persone. Il calcio non è solo Cristiano Ronaldo, non è solo Mertens: il calcio è anche chi gioca nelle categorie minori o occupa mansioni che non hanno strettamente a che fare con il terreno di gioco. Facile fare della retorica verso un mondo che all’apparenza sembra dorato, ma sotto quella patina c’è qualcosa di immenso che merita di avere la chance di ripartire, assieme a tutto il resto. Che la Serie A abbia una chance, ne potrebbe giovare un numero di persone enorme. L’ideologia anti-calcio non serve a nulla, porta solo alla disaffezione verso un mondo che, in Italia, sta a cuore a tantissimi. Tanto varrebbe fare le crociate contro qualsiasi cosa che ci possa stare sulle palle. Se le aziende cercano di riaprire, perchè non può farlo anche il calcio?

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