I due volti dell'estremismo

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I due volti dell'estremismo

Maurizio Sarri e Rafa Benitez, nonostante siano diversi dal punto di vista del gioco e dei risultati col Napoli, sono simili tra loro nelle scelte stagionali

Rafaeliti e Sarristi, dopo essersi fatti la guerra basata sul nulla - il bel gioco, i due trofei, l'arrivo di Koulibaly, Jorginho e Ghoulam, la valorizzazione di Koulibaly, di Jorginho, di Ghoulam - rischiano di ritrovarsi sulla stessa barca. Quella dell'estremismo, a poppa e a prua. Estremismo, integralismo. Chiamatelo come volete: mettendo da parte gli elementi di cui sopra, Maurizio Sarri ed il suo predecessore iberico sono molto simili tra loro. 

TESTARDI A LORO MODO

Entrambi capoccioni, convinti delle loro idee, con una visione delle cose magari non condivisibile ma sicuramente da rispettare a prescindere dai risultati. Da una parte lo spagnolo, nel 2014-2015, fu sotterrato da 24 punti di distacco dal primo posto e - a stagione in corso - decise di intraprendere l'ardua e coraggiosa strada per la Champions tramite l'Europa League. Con una squadra rivelatasi perdente sui tre fronti, con due semifinali ed un quinto posto (non sapremo mai come sarebbe andata a finire se Higuain avesse segnato il rigore contro la Lazio, se ci si fosse dedicati al campionato già prima per raggiungere il terzo posto. Mai). Ed una legacy - eredità, nel caso non conosciate l'inglese - che non gli permette di essere ricordato nel migliore dei modi. Soprattutto dai Sarristi più convinti. 

Quelli che in queste ore stanno giustificando la figuraccia europea (la quinta in sette partite) rimediata contro il Lipsia. Ottenuta mettendo in campo, tutti assieme, quei giocatori che hanno trovato meno spazio durante l'anno. I cui automatismi, meno oliati, sono stati travolti dall'intensità dei tedeschi. Gli stessi giocatori che, ad inizio anno, non avrebbero sfigurato anche in campionato contro compagini di livello inferiore. Ma tant'è.

RISCHIO APPARENTE

Premesso che la scelta di dedicarsi al campionato, vista la posizione in classifica, è da rispettare e - sotto un certo punto di vista - comprensibile, va anche detto che Sarri nel suo integralismo ha ristretto anno dopo anno il suo gruppo di titolarissimi al netto degli infortuni (nel 2015/16 in 14 sopra il 33% di utilizzo, nel 2016/17 in 13, quest'anno in 12 più Mario Rui, subentrato all'infortunato Ghoulam dopo aver totalizzato solo tre minuti; il famoso undici titolare che recitiamo a memoria ha visto aumentare la percentuale di utilizzo dal 75,4% al 79%. E siamo ancora a febbraio). Il colpo di stato, con i famosi diciotto uomini - diventati dodici - , è difficile farlo su più fronti. Trattare la Coppa Italia e l'Europa League come se fossero ingombranti ci può stare. Va benissimo. Ma l'azzardo è forte: l'all-in è stato lanciato, estremo fino alla fine. 

Non è una questione di bel gioco, la questione è sfidare il proprio estremismo nelle scelte al cospetto di un avversario numericamente più forte. Sperare che vada tutto bene, sperando che la propria legacy nel futuro sia ricordata positivamente. Perchè dopo aver fallito qualsiasi obiettivo che non sia il campionato - ricordiamolo ancora, la scelta è comprensibile ma magari non condivisibile -, Sarri si ritrova con la sua scelta integralista. Condivisa con la squadra, quantomeno con quella parte che gioca. Ma col rischio di rimanere a bocca asciutta, scontentando un po' tutti. Sarristi e Rafaeliti, seguaci di due allenatori integralisti nelle proprie scelte. Chi se ne frega della fase difensiva e del bel gioco: questi non sono titoli ufficiali, servono solo a far gonfiare il petto a chi si accontenta.

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