Hirving Lozano, attaccante del Napoli, si racconta in una lunga lettera pubblicata da The Players Tribune in vista del Mondiale che giocherà con la maglia del Messico. Vi proponiamo uno stralcio dedicato alla squadra azzurra.
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“Tre anni più tardi, avevo portato la mia famiglia dall’altra parte del mondo, nei Paesi Bassi, con il PSV. Devo ringraziare Dio, perché il trasferimento andò molto bene. Nella mia prima stagione abbiamo vinto il campionato e nella seconda ho giocato nella Champions League e ho anche giocato da titolare nel Messico.
Ancora una volta, nella mia carriera, Ana ed io ci siamo fermati e ci siamo chiesti: “Aspetta, ma cosa sta succedendo? Questa è la nostra vita, ora? Come siamo arrivati qui?!” Così tante cose erano successe tra il mio debutto e il PSV. Erano passati alcuni anni, ma per certi versi sembravano solo pochi giorni.
Dopo la Coppa del Mondo (e il terremoto), accadde un’altra cosa incredibile. Un giorno, ho ricevuto una telefonata da un numero italiano.
“Hola, Chucky? Sono Carlo Ancelotti”.
Quando ho sentito il nome, sono quasi impazzito.
Ancelotti aveva lavorato come opinionista per Televisa in Messico durante la Coppa del Mondo e aveva visto il mio gol. Voleva che io andassi a giocare per lui al Napoli.
Durante la stagione 2018-19, ricevevo telefonate da lui ogni settimana. Quando mi infortunavo, mi chiedeva: “Come va il ginocchio? Come procede il recupero?”
È una persona così. Quando mi chiese di andare al Napoli, come potevo dire di no?
Conosci già Ancelotti. È un grande allenatore, ma è ancora migliore come persona.
La prima sera in Italia portò me e la mia famiglia a cena con tutta la sua famiglia. E intendo tutta la sua famiglia: portò anche i nipoti. Questo fu molto importante per me, perché credo che a volte la gente non si renda conto di quanto sia difficile cambiare Paese come calciatore. Soprattutto per i latinoamericani, perché la cultura europea è così diversa e sei così lontano dalla famiglia. Ma Ancelotti sapeva come farti sentire a casa tua. Quell’umanità mi è rimasta impressa.
Fu uno shock quando fu licenziato dopo alcuni mesi di risultati zoppicanti. E, se devo dire la verità, ho avuto problemi mentali nella prima stagione. Giocavo e non giocavo e le cose diventarono difficili.
Non molto tempo dopo la partenza di Ancelotti, arrivò il COVID. Ana e i bambini erano tornati in Messico e io avrei dovuto raggiungerli durante una pausa internazionale nel marzo del 2020, ma all’improvviso tutti i voli furono cancellati e io rimasi intrappolato da solo dall'altra parte del mondo.
All’inizio, nessuno capiva cosa stesse succedendo. Pensavo che la cosa si sarebbe risolta in pochi giorni. Dopo qualche settimana, ho detto al club che non ce la facevo più. Li ho supplicati di lasciarmi tornare a casa. Ma loro dicevano: “Guarda, non puoi andartene. Non si tratta solo di una multa, finirai in galera”.
Fu un momento da film dell’orrore. Alla fine, come molte persone in quel periodo, trascorsi tre mesi da solo, e mi sembrò di impazzire. Mi sentivo così solo e così lontano dai miei sogni. Mi ero trasferito in Europa per la mia famiglia e ora eravamo così lontani. Non avevo nemmeno il calcio come distrazione.
Da allora ci sono stati altri ostacoli sul mio cammino, ma sono fortunato perché mi sono sempre ripreso. Abbiamo vinto la Coppa Italia, al riavvio dei campionati dopo il blocco, e sono diventato il primo giocatore messicano a vincere un trofeo in Italia. Sono stato anche il primo messicano a segnare in Serie A e abbiamo mancato lo scudetto di un soffio.
Ho avuto altri grandi allenatori da cui ho imparato molto. Personaggi molto diversi tra loro, come Gattuso (una persona che vuole vivere a 100 all’ora) e Spalletti, che cerca di imbrigliare il diavoletto che ho sulla mia spalla.
Spero di essere riuscito ad aprire le porte ai miei connazionali. E se attraverseranno queste porte, troveranno una cultura molto diversa, ma per certi versi molto simile. La passione che i tifosi hanno qui a Napoli è incredibile. Non riesco a spiegarla. Il modo in cui sostengono la loro squadra... come giocatore, ti riempie di energia e di orgoglio. C’è anche pressione, ma ormai ci sono abituato. Mi piace.
I tifosi messicani hanno la stessa mentalità – come avete visto in Russia, la nostra passione è qualcosa di diverso. Può causare terremoti. Cosa posso dire? Viviamo il calcio meravigliosamente.
So che alla gente piace parlare della maledizione de el quinto partido – la quinta partita della Coppa del Mondo – e della pressione sulla squadra messicana, ma onestamente non me ne importa nulla. Non vale la pena parlarne se non per dire: non mi interessa la superstizione. È un cliché, e dobbiamo concentrarci sul presente, non sulla storia, e gestire una partita alla volta. Prima partita, seconda partita, terza... e poi, si spera, seguiranno buone cose. Magari anche una quinta partita.
Ma non possiamo dare nulla per scontato. Quando arriva la Coppa del Mondo, credo che tutti si aspettino che il Messico e i nostri tifosi siano lì a riempire gli stadi e le strade con la nostra passione e i nostri colori.
E sappiamo cosa serva per arrivare negli ultimi 32. Abbiamo lottato molto per essere qui.
Forse altri pensano che le qualificazioni CONCACAF siano facili per una squadra come il Messico, ma lasciatemi dire che non sono uno scherzo.
Chiunque pensi che abbiamo vita facile dovrebbe andare a giocare in trasferta nel Panama, con razzi e fuochi d’artificio che esplodono tutta la notte fuori dalla finestra dell’hotel. I tifosi distruggono il pullman della squadra con bottiglie, sassi, monete... tutto ciò che può essere lanciato.
Una volta a Panama hanno spento i riflettori a metà partita, solo per prenderci in giro, e poi li hanno lasciati spenti per 30 minuti, per cercare di rovinarci il ritmo.
Provate poi an andare al nord, in Canada, come abbiamo fatto noi lo scorso novembre, e giocare a -23°C, con il campo completamente ghiacciato, come se fosse cemento. Non ho mai avuto così tanto freddo in vita mia! Quella sera a Edmonton avevano ribattezzato lo stadio “Ghiaccioteca”!
Poi c’è stata la Gold Cup dell’anno scorso. Vi ricordate quando sono andato a sbattere contro il ginocchio del portiere di Trinidad e Tobago?
Il mio collo è ruotato di 180 gradi, la mia spina dorsale è rimasta danneggiata e il mio occhio è... esploso. Ho avuto molta paura. Ho pianto tanto. Ho temuto per la mia vita, sinceramente. Grazie al chirurgo, sono rimasto fuori per soli tre mesi, ma molti medici mi hanno detto che è stato miracolo che sia sopravvissuto, per non parlare del fatto che sia riuscito a tornare in campo così rapidamente"