Cannavaro: "Vi racconto la mia storia, tra i primi calci tra la droga e il regalo di Maradona. Stasera..."

Le Interviste  
Cannavaro: Vi racconto la mia storia, tra i primi calci tra la droga e il regalo di Maradona. Stasera...

Fabio Cannavaro ha rilasciato un'intervista al Corriere dello Sport in vista del big match di stasera: "Io ho iniziato a giocare al calcio nella pancia di mia madre, ne sono sicuro. A casa mia il calcio era come il pane. Era quotidiano. Mio padre giocava in serie C, mia madre, forse anche per questo, era una vera appassionata. Tutti tifosi del Napoli, ovviamente. Mio padre era forte assai, qualcuno dice il più bravo calciatore tra tutti i Cannavaro. Poi papà ha fatto il cassiere in banca e mamma la casalinga ma il calcio è rimasto sempre nell’aria. Vivevamo in un quartiere popolare di Napoli, un quartiere difficile, c’è bisogno di dirlo?". 
 

Anche lei come buona parte della sua generazione e di quelle precedenti ha imparato per strada? 
 
"Sì, neanche all’oratorio. Per strada. Dove c’erano vari pericoli. Quelli dei comportamenti, in primo luogo. Era l’inizio degli anni ottanta e la droga girava a fiumi, specie l’eroina. C’era una farmacia, nel quartiere, e i ragazzi andavano a prendere le siringhe per poi bucarsi proprio sotto casa nostra. Io volevo vedere come facevano ma mia madre e mia sorella mi prendevano per i piedi e mi portavano via. E poi gli scippi. La disperazione sociale è un fatto che si impara da bambini. Mia madre stava molto attenta. Per esempio voleva che io parlassi italiano e non in dialetto. Ma insieme ai pericoli ambientali ce ne erano anche di più semplici. Noi giocavamo per strada e il pallone spesso finiva in mezzo alle macchine. Un bambino segue il pallone, in quei casi. Non tiene conto dei pericoli. Io quando guido ci sto sempre attento, da allora. Mi dico sempre: “Se vedi un pallone che rotola frena, dietro c’è sicuramente un bambino che lo rincorre".
 
Si ricorda il primo calcio a una palla? 
 
"Sì, era nel terrazzo di casa. Poi la palla finiva nel giardino della signora del piano di terra che si era specializzata in buoni rinvii verso l’alto. E poi, come le ho detto, per strada, in mezzo ai negozi. Facevamo confusione, diciamo che non attiravamo i clienti. Ma quando sono diventato campione del mondo e poi sono tornato nel quartiere, i commercianti erano orgogliosi, dicevano: “Se avessimo chiamato i vigili per far smettere di giocare Fabio e i suoi amici, forse non avremmo vinto i Mondiali”. Sentivano che era un po’ anche merito loro". 
 

Quando passa ai campi veri? 
 
"Comincio nella scuola calcio dell’Italsider di Bagnoli. Oggi è chiusa e mi fa una grande tristezza. Non solo, ovviamente, per la fabbrica e il lavoro perduto ma anche per quei campi di calcio dove generazioni di ragazzini hanno imparato a coltivare i loro sogni. Chiuso e abbandonato, come il centro di Soccavo che si chiama persino Centro Paradiso. Feci lì un anno di scuola calcio poi venne il Napoli e prese cinque di noi. Uno era il figlio di Antonio Juliano. Il padre, pensi che paradosso, si oppose che il figlio, che era davvero forte, si mettesse a giocare e insistette per farlo studiare. Ora credo faccia l’avvocato a Londra". 
 
Il Napoli era la squadra del suo cuore… 
 

"Sì, lì ho fatto tutta la trafila. Ma per noi ragazzi il momento più bello era la domenica quando andavamo a fare i raccattapalle allo stadio. Io l’avevo studiata bene. Mi mettevo dove c’era la bandierina dei calci d’angolo perché da lì Maradona li batteva. Era il tempo delle macchine fotografiche usa e getta. Io gli avrò fatto migliaia di fotografie, mentre calciava il corner. Chissà se c’è qualche immagine tv che riprende la scena. Anche ai Mondiali del 1990 ero raccattapalle, durante Italia-Argentina. Sedici anni dopo sarei diventato campione del mondo, che strano". 
 
E com’era Maradona, visto da voi ragazzi? 
 
"Quando lui arrivava al Centro Paradiso, noi restavamo incantati. Per noi era un’apparizione, aveva qualcosa al di là dell’umano. Io e Ametrano una volta prendemmo il coraggio a quattro mani e gli dicemmo: "Noi abbiamo i piedi come i tuoi, non nel senso della bravura nell’usarli ma in quello della misura di scarpa. Non è che ci regaleresti degli scarpini tuoi?". Lui ci guardò interdetto e ci disse che lo avrebbe fatto. Noi pensammo che ci avesse risposto così per toglierci dai piedi. Invece qualche giorno dopo arrivò il magazziniere con due paia di suoi scarpini. Erano dei Puma King. Non ce li siamo più tolti. Forse avremmo dovuto tenerli come un cimelio. Ma con quelli ai piedi ci sentivamo più forti, invincibili".  
 
Il suo esordio in prima squadra? 
 

"Iniziai a 17 anni in Coppa Italia. Poi però Ranieri, forse giustamente, pensò fossi troppo giovane e feci 26 panchine senza mettere piede in campo. Arrivò Bianchi e dopo una settimana mi fece scendere in campo. Esordii contro la Juve, destino… Marcai Paolo Di Canio, che poi giocherà anche lui nel Napoli, destino…. Di quella partita non ricordo nulla, solo la grandissima emozione. Bianchi, saggiamente, me lo disse solo due ore prima della partita. Feci in tempo ad avvertire i miei e la mia fidanzata". 
 
Poi si affermò come uno dei migliori difensori della storia del calcio italiano. 
 
"Ci volle tempo e qualche amarezza. Con Bianchi feci tre anni ininterrotti in prima squadra. Poi il Napoli cominciò ad andare male, in campionato e con i debiti. Arrivò Lippi che, per dare una scossa, si affidò ai senatori. Ma io volevo giocare e chiesi alla società di essere ceduto. Il giovedì avevo un incontro con l’Acireale il cui allenatore, Materazzi, stravedeva per me. Ma il martedì di quella settimana benedetta, Lippi mi prese da parte e mi disse che avrei giocato in Coppa Italia con il Torino. Feci una partita strepitosa. Lippi il giorno dopo chiamò la società e disse loro: “Il ragazzo è troppo forte, da qui non si muove". 
 
Chi è stato l’allenatore più importante per la sua carriera di giocatore? 

 
"Per le ragioni che ho detto Bianchi e Lippi che, in due momenti diversi, ebbero il coraggio di credere in me. Ma dal punto di vista tattico e tecnico Carlo Ancelotti. Fu lui a insegnarmi a giocare a zona. Quando allenava il Parma all’inizio giocava con me e Thuram sulle fasce laterali, come terzini. Poi un giorno decise di metterci centrali e non eravamo male, in coppia". 

E come si trovò nella Juve? 
 
"Mi aveva voluto Capello. Che è un allenatore duro ma lo è fondando il suo metro di giudizio sull’impegno di un giocatore. Lui pretende, e ha ragione, il cento per cento da un atleta. Mi trovai subito a casa. Intanto ritrovavo un po’ di Parma , Buffon e Thuram, e tutti i miei amici della Nazionale, a cominciare da Del Piero. Entrai subito in squadra, come ci fossi sempre stato. E’ stato, a trentuno anni, il mio miglior campionato. Vincemmo lo scudetto e io feci 38 partite. Eravamo uno squadrone. Vincemmo sul campo, e quello conta, due scudetti strameritati". 
 

Dopo Calciopoli lei non seguì la Juve in serie B… 
 
"Io dissi ai dirigenti: “Ho trentatré anni, posso ancora giocare due campionati. Se la squadra resta in A, anche con mille punti di penalizzazione io ci sono. Se va in B vorrei concludere altrove la mia carriera”. Il giorno dopo mi avevano venduto al Real. E lo capisco. Avevo ancora mercato ed era giusto che sfruttassero la coincidenza di interessi. Il Real è una portaerei gigantesca, ha tifosi in tutto il mondo. Allenatore era Capello, che mi stimava. Inizialmente fu difficile, c’erano molti problemi nello spogliatoio, separato tra brasiliani e spagnoli. E io di spogliatoi divisi nella mia vita ne ho visti, ricordo una terribile zuffa tra Zebina e Ibrahimovic, erano pure grossi tutti e due. A Madrid c’era grande attesa per me, avevo vinto il Pallone d’oro, ero campione del mondo: dopo un buon inizio ebbi un offuscamento. Mi ricordo che durante una partita col Getafe, perdevamo due a zero, improvvisamente, in campo, mi chiesi: “Ma io qui che ci sto a fare?”. Mi sentivo demotivato, scarico. Il giorno dopo andai da Capello e gli dissi che non mi facesse giocare, che ero svuotato, senza motivazioni. Lui mi guardò, sembrava comprendere le ragioni del mio disagio. Poi mi gelò: “Non dire cazzate, gioca e stai zitto”. Così fu. Ed ebbe ragione lui. Feci un gran campionato e vincemmo lo scudetto rimontando sette punti". 
 
Chi è il giocatore più forte che ha incontrato. E tra quelli con cui ha giocato? 
 
"Non ho dubbi, Ronaldo, il fenomeno, non CR7. Per la mia generazione è stato quello che Maradona o Pelè erano per le precedenti. Era immarcabile. Al primo controllo ti superava, al secondo ti bruciava, al terzo ti umiliava. Sembrava un extraterrestre. Tra i miei compagni di squadra, e pure ne ho avuti di stratosferici come Maldini, Thuram, Del Piero, Nedved, Totti, Ibra, io non ho dubbi: scelgo Buffon. Già a sedici anni era il Maradona dei portieri". 
 
Nessuno meglio di lei ci può parlare di Juve-Napoli… 
 
"E’ una partita speciale. Ma a me non piace che ogni anno cresca l’odio tra le tifoserie, ci siano le curve vuote, gli insulti e gli striscioni offensivi. E’ una partita di calcio. Questo deve restare. Io penso che il Napoli in questo momento sia davvero forte. E’ in crescita e la Juve, invece, perde i pezzi per causa degli infortuni. E poi forse gli azzurri hanno più fame. La Juve ha la Champions e il Napoli deve sperare che batta il Bayern e vada avanti. Credo che il Napoli abbia molte possibilità di vincere lo scudetto. Lo dico da osservatore e un po’ anche da tifoso". 
 
Quando torna in Italia ad allenare? 

 
"Sto facendo la mia gavetta. Faccio esperienza, in tornei del calcio emergente. In Italia ci sono, ovviamente, più allenatori che squadre e allora è giusto fare belle esperienze all’estero". 
 
Le piacerebbe un giorno allenare la Nazionale? 
 
"La Nazionale è il massimo. Era il mio sogno da giocatore, lo è da allenatore. Ma so che, come da calciatore, bisogna fare esperienza. E’ quella che sto facendo". 

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