La Redazione di CalcioNapoli24 ha da sempre assunto una posizione netta nei confronti di beceri striscioni e cori razzisti: dal “Vesuvio lavali col fuoco” a quello sulla tragedia di Superga “Noi di Torino orgoglio e vanto, voi solo uno schianto”. Tanto per citarne alcuni. Al di là dei colori, c’è un obbligo morale nel condannare indistintamente i messaggi vergognosi che di frequente si leggono sugli spalti.
Allo Juventus Stadium in occasione della gara con la Fiorentina è comparso un vergognoso “-39” (CLICCA QUI PER VEDERE LA FOTO) con un chiaro riferimento alla strage dell’Heysel: la tragica finale del 29 maggio 1985 tra Juventus e Liverpool dove morirono 39 persone. Ignoranza e degenerazione. In precedenti episodi del genere, per motivi vari, le istituzioni preposte alla vigilanza hanno evitato di usare la mano pesante, CalcioNapoli24 ha scelto la strada della sensibilizzazione intervistando uno dei sopravvissuti alla tragedia dell’Heysel. L’obiettivo è quello di rimarcare la gravità di questo e di tanti altri vergognosi striscioni, non certo di condannare la singola tifoseria: un esempio che valga anche per quelli che rievocano ed invocano tragedie simili che spesso vengono lasciati tra le braccia dell’indifferenza.
Momenti drammatici, una strage evitabile, polemiche, morti a bordo campo e giocatori in festa, hooligans ubriachi, decisioni discutibili ed una ferita ancora aperta prima per i familiari delle vittime e poi per il calcio mondiale. Dalle dramamtiche parole del racconto all'insensibilità generale di oggi c'è da chiedersi: si possono ancora tollerare certe porcherie?
Signor Marcello Canneti lei è tifoso della Juve e all’epoca dei fatti aveva 23 anni.
“Si, sono di Cortona in provincia di Arezzo. Quel giorno ero con 4 amici di Livorno”.
Cerchiamo di inquadrare il periodo calcistico internazionale che attraversava quella Juve : la vecchia signora veniva dalla cocente sconfitta della finale di Coppa Campioni del’83 persa con l’Amburgo ; nell’84 vinse la coppa delle coppe. Nel gennaio 1985, disputò a Torino la finale di Supercoppa Europea con lo stesso Liverpool, vinta per due a zero. Mentre il Liverpool dominava da anni il proprio campionato ed aveva messo in bacheca un paio di coppe di Campioni. Quella finale rappresentava per la Juve qualcosa di importante?
“Per noi tifosi la partita con il Liverpool era considerata la finale delle finali. Dopo la delusione della finale di Atene persa con l’Amburgo questa poteva essere la volta buona per conquistare la Coppa dei Campioni. La Juventus era fortissima e praticava un bel calcio. Il trio di attacco Platini - Boniek - Rossi ci aveva portato in finale e ci faceva sognare il trofeo”.
La scelta dello stadio Heysel di Bruxelles come sede della finale fu molto criticata. In molti giudicarono la struttura non idonea e fatiscente: cosa ricorda di quello stadio?
“Confermo, lo stadio Heysel non era idoneo ad una finale di Coppa dei Campioni. Era uno stadio obsoleto ed in condizioni precarie. La divisione tra le due tifoserie nel settore ’ Z ‘ era fatta da una rete di lega molto leggera. I sostenitori del Liverpool infatti riuscirono a piegarla con le mani. I gradoni della curva erano molto bassi tanto da non potersi mettere a sedere. La recinzione esterna era fatta da un muro alto tre o quattro metri con del filo spinato nella parte alta , tanto che i tifosi inglesi nel pre partita riuscirono a far passare al di sopra del muro anche intere casse di birra”.
La sera prima della partita si erano registrati fatti incresciosi, di tifosi inglesi che avevano spaccato vetrine di negozi, malmenato passanti. L’Uefa e la polizia fecero poco o nulla per prevenire il tragico evento: di fatto la macchina organizzativa risultò impreparata dinanzi all’imprevisto. Lei lo può confermare?
“Non posso raccontare nulla della sera precedente perché non ero presente. Arrivai dall’Italia il giorno della finale con un volo charter partito da Pisa, con un viaggio organizzato dall’agenzia di viaggi Ciocco Travel. Il nostro volo doveva atterrare a Bruxelles ma, a causa di un ritardo, fu dirottato all’aeroporto di Ostenda. Da lì ci portarono a Bruxelles in pullman. Per le strade di Bruxelles vedevo i tifosi inglesi ubriachi ma niente lasciava presagire quello che poi sarebbe avvenuto allo stadio. Ricordo che, al passaggio del nostro pullman, cercavano di strappare le sciarpe che uscivano dai finestrini e alcuni si abbassavano i pantaloni mostrandoci il posteriore. Ho ancora impresso il momento nel quale, all’aeroporto, ci consegnarono i biglietti dello stadio. Tutti ci rendemmo subito conto che il settore ‘Z’ era quello vicino alla tifoseria inglese. Il nostro pensiero fu che L’ Uefa e la polizia Belga avessero organizzato un adeguato servizio d’ordine. Ciò che poi non avvenne. Infatti, all’esterno dell’Heysel c’erano solo alcuni gendarmi a cavallo che passavano tra i tifosi, mentre all’interno altri 7 o 8 poliziotti dovevano fare da cuscinetto tra le due tifoserie. Per i tifosi del Liverpool non fu difficile entrare in contatto con i tifosi Juventini proprio perché così pochi gendarmi non riuscirono ad arginare la loro furia”.
Nel famoso settore zeta dello stadio c’era un tifo eterogeneo, senza barriere sufficienti, con metà sostenitori del Liverpool e metà juventini. Lei che era presente in quel settore, ci descriva i terribili momenti prima, durante e dopo gli incidenti?
“Ricordo molto bene ancora quei momenti. Indossavo la maglia numero nove di Paolo Rossi e una sciarpa legata alla vita. Con fatica per la poca ampiezza dei cancelli d’ingresso, entrai fra i primi all’interno dello stadio. Insieme ai miei 4 amici ci posizionammo proprio al centro del settore ‘ Z ’. Mi fermai davanti ad una transenna perché, così facendo, nessuno mi avrebbe potuto impedire la visione della partita. Ci allietò l’attesa un incontro di calcio fra due squadre di ragazzini del Bruges mentre sugli spalti le tifoserie intonavano i propri cori. Notai subito che, all’interno della curva, non c’era nessun gruppo organizzato di tifosi juventini. Erano tutte famiglie o gruppi di persone con bambini. Infatti, alle prime scaramucce che avvennero nei pressi della rete di divisione, uno dei miei amici cominciò a preoccuparsi, chiedendomi di uscire. Cercai di rassicurarlo dicendogli che prima o poi le cose si sarebbero calmate. Il mio amico, però, ancor più impaurito, mi chiese di andare verso l’uscita che era situata nella parte alta del settore. Fu la nostra fortuna. Nel momento in cui ci muovemmo, la gente, presa dal panico, cominciò a gridare ‘’oddio ci ammazzano tutti” correndo verso la parte bassa della curva. In quel momento anch’io ebbi paura perché non riuscivo più a fare quello che volevo. Riuscì a fatica a raggiungere la parte alta della dove era ubicata una costruzione in legno di circa 3 metri alla quale riuscii ad aggrapparmi per poi gettarmi al di fuori dallo stadio nella collinetta in cui era situato. Scesi di corsa la collinetta e fui uno dei primi a passare sotto la tribuna d’onore dove erano fermi in colonna i mezzi delle forze dell’ordine con ancora dentro i gendarmi. Subito mi chiesi perché non fossero stati schierati a cuscinetto fra le due tifoserie. Con il cuore in gola corsi verso la curva dove era la tifoseria Juventina e chiesi ad uno steward se era possibile entrare. Non ci furono obbiezioni. Appena entrai nel settore mi resi subito conto della gravità degli incidenti. In lontananza vedevamo portare dentro il campo persone prive di sensi. L’altoparlante dello stadio inizialmente comunicò i feriti, subito dopo i morti. Il primo pensiero andò alla mia famiglia che si trovava in Italia. Speravo che non avessero visto quelle immagini. I cellulari non erano ancora d’uso comune e mi fu difficile comunicare con l’Italia per dare notizie. Bruxelles era sotto coprifuoco. I locali pubblici avevano tirato giù le saracinesche e non concedevano a nessuno la possibilità di fare una telefonata. Anche all’aeroporto c’erano code interminabili ai telefoni pubblici. Riuscii a contattare la mia famiglia solo a Pisa, al mio rientro, alle ore sei del mattino”.
Ricorda qualcosa di quell’onda di tifosi inglesi che caricarono gli italiani?
“Ho ancora viva l’immagine degli inglesi che scavalcano la rete di divisione del settore con in mano i colli di bottiglia rotti e si dirigono verso di noi facendo scappare la gente e creando il panico”.
Sugli spalti si ebbe la chiara dimensione dell’accaduto?
“Si, ci rendemmo subito conto della gravità dell’accaduto. Bastava aggirarsi nei dintorni della Tribuna d’Onore dove erano state impiantate delle tende da campo per curare i feriti o sistemare i corpi senza vita delle persone cadute durante quei minuti di follia”.
L’allora presidente della Juve, Boniperti, dichiarò che dall’incontro con le autorità locali e col presidente del Liverpool emerse la decisione di disputare la gara per non trascendere in una tragedia dalle proporzioni ancora più catastrofiche. Da tifoso presente allo stadio, nonostante i corpi inanimati a pochi metri, quando apprese la notizia che la finale si sarebbe giocata, cosa pensò? Era giusto?
“In un primo momento, per la rabbia che avevo dentro di me, rimasi perplesso. Poi mi resi conto che era giusto giocare per calmare la situazione ed evitare la caccia all’inglese”.
Qual era a quel punto il senso di quella partita?
“La partita non aveva più senso ma servì per non far nascere altri scontri”.
In molti ebbero l’impressione che l’arbitro svizzero Daina ebbe una direzione discutibile: si sospettava che si volesse evitare, in caso di vittoria degli inglesi, di revocare il titolo per le eventuali sanzioni per gli scontri registrati. Dagli spalti che sensazione ebbe sull’arbitro?
“Credo che la giustizia sportiva avrebbe confermato il risultato scaturito dal campo anche se avesse vinto il Liverpool . Dal vivo non ebbi l’impressione che l’arbitro indirizzasse la partita a favore della Juve, riguardando le immagini con calma devo dire proprio di si”.
Il fine di certe domande è solo quello di ricreare il contesto, prima, durante e dopo quella finale. Testimonianze discordanti non chiariscono un aspetto: Tacconi e Tardelli da un lato, Trapattoni e Platini dall’altro. Secondo lei i giocatori in campo le sembravano consapevoli dell’accaduto?
“I giocatori erano consapevoli dell’accaduto perché molti tifosi, durante gli scontri, riuscirono a mettersi in salvo entrando nel campo per poi recarsi verso gli spogliatoi per non far giocare la partita. Ricordo proprio alcuni giocatori della Juve che si erano affacciati dal tunnel degli spogliatoi per parlare con i tifosi”.
L’esultanza di Platini sul rigore trasformato suscitò molte polemiche condivisibili o meno. Alla stessa stregua dei festeggiamenti di tutta la squadra torinese a fine partita, con giri di campo e sventolio di bandiere. Dagli spalti quali furono le vostre reazioni?
“L’esultanza di Platini al goal fu per tutti i presenti allo stadio, un gesto per scaricare la rabbia e la tensione per l’accaduto. Ricordo che anche io urlai ma fu più per liberare la rabbia che per la gioia che avevo dentro. Era una sensazione strana, irreale”.
Molti calciatori juventini si giustificarono affermando che sapevano poco o nulla dell’accaduto. Resta il fatto che il giorno dopo, arrivati in Italia, scesero dall’aereo alzando la coppa non lesinando cenni di festeggiamenti. In quanto testimone di un triste evento, non si senti offeso da quell’atteggiamento?
“No, non mi sento offeso perché penso che per la maggior parte delle persone quella coppa maledetta non ha nessun valore sportivo ma ricorda il sacrificio assurdo di 39 persone innocenti. Il mio rammarico è un altro: poteva essere una bella finale giocata dalle due squadre più meritevoli ma fu rovinata dalla stupidità umana”.
Le sembra che in questi anni sia stato fatto troppo poco per ricordare quel giorno?
“Certamente le tv e i giornali sportivi non sono portati a ricordare questi fatti di cronaca. E’ più facile parlare dell’ evento sportivo però sarebbe bene che non fossero mai dimenticati quei 39 innocenti che hanno perso la vita per assistere ad una partita di calcio”.
Furono 39 i tifosi morti per schiacciamento e per effetto del crollo di un parapetto. Se avesse la possibilità a 24 anni di distanza cosa racconterebbe ad uno dei tifosi scomparsi?
“Gli direi che è assurdo morire per assistere ad una partita di calcio. Quello che è accaduto a lui poteva succedere a me ma, per fortuna o per destino, non è andata così. Gli direi che rimarrà sempre nei nostri cuori a monito che fatti come questi non avvengano più”.
Non voglio essere indelicato nè allusivo: lei allo stadio ci va ancora?
“Si, ma solo in Italia”.
Quanto pensa sia cambiato il calcio in termini di cultura sportiva e di organizzazione?
“E’ cambiato molto a livello internazionale anche perché gli Inglesi sono riusciti a sconfiggere il problema Hooligan, almeno in patria. Ora sono un esempio da seguire. Se allora ci fosse stata una struttura simile a quella odierna tutto questo non sarebbe avvenuto”.
Cosa le resta di quel maledetto giorno?
“Mi viene subito in mente la felicità che ho provato ritrovando i miei amici sani e salvi sul pullman che ci aveva portato allo stadio. Ci eravamo persi nella fuga dal settore e temevamo ognuno per la vita dell’altro, in particolare per uno di noi che aveva una protesi al braccio. Fortunatamente tornammo a casa tutti sani e salvi”.
Cosa ha da dire su quel ‘-39’ visto in Juventus-Fiorentina di sabato scorso?
"Non ho nulla da commentare sia per rispetto di quei tifosi che hanno perso la vita che per i loro familiari che ancora oggi hanno aperto il loro dolore. Negli stadi di questi striscioni ne vediamo tutte le settimane e l'unica cosa è condannare tutti quelli che istigano alla violenza".
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Ecco il biglietto del signor Marcello Canneti, sopravvissuto alla tragedia dell'Heysel