di Paolo de Angelis
Riposa in pace nella sua bara azzurra, Hasse Jeppson, proprio nel centro del suo paese natale, Kungsbacka, in Svezia, dove il cimitero altro non è che un giardino, posto proprio nel cuore delle abitazioni, dove le mamme portano i bimbi, si siedono su di una panchina e li lasciano giocare. Azzurra perchè lui adorava l’azzurro, era il suo colore preferito, ed anche perchè l’azzurro che vestì per anni non lo ha mai abbandonato. Era sempre il primo tifoso della squadra partenopea, seduto sulla poltrona del grande salotto della sua abitazione, sulla Cassia, a Roma, dove guardava il Napoli e, poi, tutto il tennis, suo secondo amore. E proprio in quella magnifica villetta, al riparo da tutto e da tutti, sono andato l’altra sera a trovare la moglie Emma Di Martino. Si conobbero al circolo del tennis che dava su Via Caracciolo. Lei appena ventunenne, lui un trentaduenne che, terminati gli allenamenti, prendeva la racchetta e si godeva ancora del tempo di sport sulla terra rossa. Emma è una persona deliziosa che continua a vivere in quella villa che, per tanti anni, ha condiviso con il suo amore di sempre. E tra quelle mura Hasse è come se ci fosse ancora. C’è tutto di lui. Le coppe del tennis e del golf, le targhe, i gagliardetti, le medaglie. Tutto. All’improvviso apre un armadio e mi mostra le giacche di Hasse. Tutte ancora li, ordinatissime, pulitissime, bellissime. Tutte fatte a mano dalla antica sartoria Caraceni, in quel di Milano. Ne prende una e me la fa misurare. La cosa strana è che mi va corta di maniche. Come, Hasse così alto, con quelle leve lunghe, lunghissime. Fa nulla, la prende e me la regala. E’ del 1988, ma è come se fosse di oggi tanto è bella, tanto è ancora di moda. Ormai è qualche anno che ci conosciamo, famosa, per me, è la loro frase: “potresti essere nostro figlio. E un po’ lo sei”. Facciamo un giro per casa. Il suo televisore, la sua poltrona, il suo letto dove l’ho visto, praticamente, morire. Ed il suo computer dove Emma mi fa vedere quanta gente le scrive ancora, quanto il ricordo di Hasse non si spegne e, al contrario, rimane sempre vivo. Tra le email una che mi ha colpito. Un signore di Bergamo, che ama Napoli avendoci lavorato e vissuto per anni, le invia delle foto di una bicicletta che ha costruito per lui, per Jeppson. Una bici che lo ricorda e che ricorda un numero, 105, i milioni che il Napoli diede all’Atalanta per assicurarsi uno tra i più grandi campioni che vestirono la maglia azzurra. Poi qualche racconto, qualche precisazione, come quella relativa al fatto che, da fidanzati, si narra che Hasse tirava a far tardi a casa della futura suocera la quale, a mezzanotte, per abitudine, caricava sempre i numerosi orologi di casa. E quando lui disse: “molto bello” lei, di rimando: “ non è molto bello. E’ mezzanotte, è ora che lei vada”. Non era andata proprio cosi. Il ricordo di Emma è chiaro e fresco. E forte. Ogni volta che sua madre si apprestava a caricare la propria collezione di orologi a muro, generando melodie incredibili tra cucù e scampanellii, era proprio Hasse che si alzava per salutare tutti capendo che, a mezzanotte, fosse ora di tornare a casa. Si fa tardi, non mezzanotte ma tardi, per una sera di lampi, tuoni e pioggia battente. Saluto, tanto ci rivedremo presto, prendo la macchina e vado via. Non c’è Hasse. Lui, son sicuro, avrebbe preso la bici. La bici Jeppson 105. Era uno sportivo vero, il movimento la sua vita. Una vita azzurra. Anche ora.
(La bici, come si può vedere in foto, ha i colori dell'Atalanta, squadra in cui Jeppson ha giocato nella stagione 1951-52).
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