Marino: "Boniperti mi disse 'Non vogliamo Diego!'. Il mio Napoli travolse la Juve e quel disabile ci fece credere nel miracolo"

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Marino: Boniperti mi disse <i>'Non vogliamo Diego!'</i>. Il mio Napoli travolse la Juve e quel <i>disabile</i> ci fece credere nel miracolo

Il 9 novembre 1986 fu una giornata storica per la mia carriera. Quella domenica giocammo a Torino contro la Juventus una partita che fu fondamentale per la crescita del Napoli meravigliosamente guidato dal mio amico Ottavio Bianchi. Alla fine di quel campionato, il Napoli conquistò il suo primo Scudetto, dopo oltre sessanta anni dalla fondazione del club. Si giocava la nona giornata di quella storica stagione sportiva ’86-‘87, in cui riuscimmo a centrare la “doppietta” Campionato e Coppa Italia. La classifica, dopo otto giornate, vedeva in testa Juventus e Napoli appaiate a 12 punti. Quella partita, con i due punti a vittoria ed un campionato fatto di sole trenta partite, rappresentava già uno snodo importante sulla strada dello Scudetto. La settimana di avvicinamento al big match, nel nostro centro tecnico di Soccavo, trascorse più lenta che mai, in un tourbillon di emozioni e di spasmodica attesa per un appuntamento a cui il Napoli non era mai giunto da capolista. La vittoria a Torino, poi, mancava da soli…. 29 anni! Tutti i giocatori azzurri, capivano l’importanza di quella partita per gli sviluppi di una stagione che, per quanto all’ inizio, ci aveva già dolorosamente traumatizzati, in Coppa Uefa, con la prematura e clamorosa eliminazione di Tolosa, a seguito dei due rigori “avvelenati” di Bagni e Maradona. La campagna trasferimenti suppletiva si era appena conclusa ed il mio unico acquisto “novembrino”, il centrocampista Francesco Romano (pescato in Serie B nella Triestina) aveva già cominciato, tra lo stupore della critica, a dirigere sapientemente l’orchestra partenopea fin dalla vittoriosa partita dell’ Olimpico con la Roma del 26 ottobre, che ci aveva proiettati in testa alla classifica. Avevo solo trentadue anni, già da qualche campionato ero il più giovane direttore sportivo di Serie A, ma l’attesa di quella che era diventata la partita più importante che avessi mai affrontato fino ad allora, mi tenne insonne per una settimana. In quei giorni un tumulto di sentimenti e di ansie mi faceva fibrillare freneticamente. Agli allenamenti cercavo nello sguardo di Diego Maradona quegli occhi di tigre che avevo visto quattro mesi prima, allo Stadio Azteca di Città del Messico, a poche ore della finale della Coppa del Mondo della sua Argentina con la Germania. Quel 29 giugno 1986, nel pieno dei festeggiamenti e della felicità, con la Coppa ancora tra le mani e il mitico Carmando testimone d’ eccezione, Diego mi gridò con entusiasmo pari alla convinzione in ciò che prometteva: “Direttore, quest’anno si vince anche a Napoli!". A metà settimana, attraverso le gigantesche video cassette dell’epoca, ottenute da un amico della Rai, avevo visto le ultime partite della Juventus, dove la stella di Platini cominciava a non brillare più come prima. Mi consolavo, pensando, meno male che Diego ce lo abbiamo noi. Sì, perché Maradona avrebbe potuto essere dall’altra parte, se nell’estate ’84, poco prima di mettere in contatto, da Avellino, Riccardo Fujca (agente Fifa argentino), che mi aveva svelato che il Pibe era in rotta con il Barcellona, con Juliano e Ferlaino, quel galantuomo di Giampiero Boniperti non mi avesse detto che non se la sentiva di prenderlo. Stessa risposta che mi aveva dato, peraltro, anche Paolo Mantovani, indimenticabile presidente della Sampdoria, preoccupato dei delicati equilibri che si potevano creare con Vialli e Mancini. Dopo una serie infinita di scossoni e clamori mediatici, finalmente, arrivò la partitissima, che vissi a due metri dal terreno di gioco. Il primo tempo fu molto equilibrato, anche se la Juve colpì un palo con Manfredonia, però, dopo una manciata di minuti del secondo tempo, un tapin di Laudrup portò la Juve in vantaggio. "Che maledizione!" pensai dentro di me. Dopo un istante, vidi sfrecciare davanti a me a bordo campo il mio pupillo Andrea Carnevale, che avevo voluto fortemente a Napoli, dopo averlo avuto giovanissimo ad Avellino. Vuoi veder che Bianchi lo fa entrare subito e giochiamo con tre punte (cosa che per il calcio dell’epoca era quasi follia)? Così fu. Dopo tre minuti dal gol di Laudrup, feci solo in tempo a gridare a Carnevale : “Andrè ! Mi raccomando …!" che il longilineo bomber era già in campo, con tutta la smania in corpo di dimostrare che era un attaccante da Napoli, dopo il suo, fino ad allora criticato acquisto dall’ Udinese. La mossa “tonicissima” di Bianchi, di far uscire Sola (un centrocampista) per far entrare Carnevale, rappresentò una flebo di coraggio e di fiducia per la squadra che, Maradona in testa, stimava molto Andrea. L’ ingresso di Carnevale in campo, scompaginò i piani tattici di Rino Marchesi, che fino ad allora avevano funzionato a perfezione. L’allenatore delle Zebre fu costretto a far entrare subito un altro difensore centrale, Pioli, attuale allenatore della Lazio, ma lo scatenato Carnevale si piazzò largo a destra, formando con Maradona e Giordano un non ancora inventato all’epoca, modulo 4-3-3, che vanificò la contromossa di Marchesi. La partita cominciò a giocarsi in una sola metà campo, quella bianconera, tanto da diventare una impari guerra tra Tacconi e tutto il Napoli. Dopo un quarto d’ ora di miracoli del biondo portiere juventino, arrivai anche a maledire il giorno in cui, con coraggio leonino, avevamo portato Stefano, giovanissimo, dalla Sambenedettese (retrocessa in C con la peggior difesa della B) ad Avellino in Serie A, per sostituire Ottorino Piotti. Appena segnato il rocambolesco pareggio con Ferrario, alla mezzora, Maradona più che esultare gridava a tutti: Questa partita ora la vinciamo ! Capito?“.

Al gol del vantaggio di Giordano, Maradona raccontò, a fine gara, con una risata così fragorosa da far tremare i muri dello spogliatoio, di aver visto un disabile in carrozzina sulla pista del Comunale, alzarsi dalla sedia a rotelle e correre per abbracciare l’autore del gol. Tanto che Diego avrebbe gridato al miracolo, se l’accompagnatore del disabile non gli avesse raccontato subito, che erano due tifosi napoletani infiltratisi in campo con un incredibile espediente. Il terzo gol, in contropiede, fu per me il festival di quei miei acquisti che la stampa aveva definito di basso profilo per il Napoli. Gol di Volpecina su assist di Carnevale. Dopo la partita l’ indimenticabile tragitto in pullman dal Comunale all’aeroporto di Caselle, fra due ali di tifosi azzurri festanti, fu l’ occasione per leggere in anticipo negli occhi di tutti, da Bruscolotti a Bagni, da Renica a Giordano e da Garella a De Napoli, la storica legenda che avrebbero scritto nei mesi successivi.

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